Il Fronte del Cielo - Emeroteca - La Lettura

       

Dicembre 1915

 L'Aeronavigazione e la Guerra

Maggio 1916

Verona ha nascosto le sue Arche Scaligere

Giugno 1917

Come si diventa piloti di idrovolante

Luglio 1917

Gli occhi di Icaro sulla flotta

       

       

Settembre 1917

Tra i Combattenti del cielo

Novembre 1917

L'Ala estrema d'Italia - Vita di Squadriglia

Dicembre 1917

Aeroplani da bombardamento

Febbraio 1918

La Guerra nel nostro cielo

       

       

Aprile 1918

Draghi, Salcicce e altri Volatili

Maggio 1918

Il Cielo in guerra

Luglio 1918

La Squadriglia esule

Agosto 1918

Salti, Voli e passioni di aquilotti

       

WWW.QUELLIDEL72.IT

LA LETTURA - DICEMBRE 1915

L'AERONAVIGAZIONE E LA GUERRA

La immane guerra che si stà combattendo, già da quindici mesi, tra le principali nazioni d’Europa, ha messo in luce in modo indiscutibile un fatto che prima d’ora dava luogo a giudizi contraddittori e ad opinioni divergenti. La cosidetta quinta arma, la navigazione aerea, ha assunto veramente quell’importanza, come efficace elemento di guerra, che era preconizzata da alcuni, ma contestata da moltissimi altri, contestata e contrariata così, che furono certamente impediti o non favoriti progressi, che si sarebbero altrimenti ottenuti già da tempo, forse notevoli. Comunque, la terribile realtà della guerra venne a tagliar corto su teorie, su divergenze, su tergiversazioni; le iniziative individuali coraggiose e intelligenti hanno avuto modo di esplicarsi; chi aveva coscienza di saper fare potè mettere in pratica le proprie energie e i propri studi. Così in pochi mesi i progressi e i perfezionamenti nella navigazione aerea in generale, ma più specialmente nell’aviazione militare, furono notevolissimi, e l’esercito dell’aria va formandosi, organizzandosi, sviluppandosi ogni giorno di più. Anche noi, che in fatto di aviazione eravamo alquanto arretrati, in questi pochi mesi ci siamo portati in prima linea, più specialmente in grazia dei potenti aeroplani Caproni di ultima creazione. Le armate dell’aria si organizzano ormai, per le spedizioni importanti, in isquadre numerose, composte di unità di varia specie, cos’ come si procede per le flotte marine. Il nucleo dei grossi velivoli bombardieri, carichi di esplosivi e circondato dagli aeroplani da corsa, armati con mitragliatrici o con cannoni Hotthkins, per l’offesa e la difesa aerea, contro i velivoli nemici; d’altra parte le mosse egli eserciti e delle flotte sono a loro volta precedute dai veloci aeroplani e idroplani esploratori, che informano dei movimenti e delle posizioni del nemico; e le azioni dell’artiglieria nelle più difficili posizioni sono efficacemente regolate dagli osservatori volanti, per precisare gli obiettivi da colpire. Per avvicinarsi con una relativa invulnerabilità al nemico terrestre, che gli spara contro una furia di colpi, i più potenti e veloci aeroplani hanno già adottato una corazzatura delle parti più vitali dell’apparecchio. Gli aeroplani blindati, che parevano un sogno poco tempo addietro, per esempio durante la nostra guerra di Libia, sono ora una pratica ed efficace realtà. Le imprese ardite di gruppi numerosi di 30, 40, perfino 65 aeroplani, talvolta anche con dirigibili, vere flotte aeree; gli episodi meravigliosi di singoli aviatori; i voli straordinari per ardimento, non si contano più nella presente guerra, da parte d tutti i belligeranti. Le escursioni con relativo bombardamento su Friedrichshafen e su Cuxhafen da parte dell’Inghilterra; su Ludwigshafen, Karlsruhe, Stuttgard, Vouziers da parte dei francesi; i bombardamenti di Londra e dei paesi della costa inglese cogli Zeppelin tedeschi; le distruzioni fatte dai nostri dirigibili e dai nostri aeroplani di obiettivi militari a Pola, a Trieste, a Nabresina, ad Aisovizza, sono tutte imprese collettive o singole manifestazioni organizzate e dirette e perfettamente riuscite, che fanno intravvedere quale enorme valore bellico vada assumendo questo recentissimo mezzo di offesa. Delle poche bravate austriache con qualche aeroplano sulle nostre città aperte indifese, all’unico scopo di intimidazione della popolazione civile e di stupida vendetta, non facciamo cenno. Questo modo feroce e insensato di concepire la guerra, coll’incutere il terrore alle donne e ai bambini, è una particolarità degli austriaci e dei tedeschi; anche dei tedeschi, saturi di Kultur, perché i bombardamenti della terre inglesi non hanno avuto altro scopo. Questi atti di barbara ferocia contro la innocua cittadinanza borghese, raggiungono però un risultato opposto; incitando ed esaltando maggiormente all’odio e alla vendetta l’intera popolazione offesa da tali sistemi. I voli di esplorazione sopra le linee nemiche sono oramai continui, innumerevoli; si può veramente affermare che un esercito moderno o piuttosto odierno, senza l’aeroplano sarebbe come una belva accecata; nemmeno quella che è l’arma esploratrice per eccellenza, la cavalleria, può sostituire appieno l’aeroplano, ad onta degli enormi sacrifici a cui viene assoggettata, lanciando le deboli e numerose pattuglie nel campo nemico; non può sostituirlo appieno perché la trasmissione di quanto scopre non può essere così immediata come coll’aeroplano o col dirigibile. L’occhio della guerra, come è pittorescamente chiamato da E. Toddi quel complesso di sistemi esplorativi, che ha assunto tanta importanza nelle guerre d’oggi, si esercita per eccellenza dalla macchina aerea, che specula e scopre dall’alto tutto il lavorio sotterraneo e nascosto delle truppe avversarie. Ma un altro modo per esplicare la notevole efficienza combattente degli aerei, nel pieno svolgimento della battaglia, abbiamo potuto constatare specialmente nella recente offensiva franco-inglese del 25-26 settembre al nord di Arras e nella Champagne, quello cioè di ostacolare e interrompere i movimenti delle retrovie, con bombardamenti dall’alto, delle stazioni ferroviarie, dei treni in corsa, delle masse di truppe accorrenti di rincalzo, nel momento decisivo dello scontro. E’ questa certamente una applicazione della quinta arma, di un estrema importanza, un’applicazione tutta sua speciale, che non può venire sostituita da nessun altro mezzo, e che può decidere, coll’impedire o ritardare l’accorrere dei rinforzi, dell’esito finale della battaglia. Una strana constatazione dobbiamo fare nello svolgimento della terribile conflagrazione attuale, quella cioè che le sole nazioni che finora impieghino con efficacia il dirigibile sono: l’Italia con i suoi P e con i suoi M e la Germania cogli Zeppelin; tutte le altre nazioni belligeranti o non o hanno impiegato affatto o si sono limitate a brevi escursioni senza seguito, sebbene specialmente la Francia abbia dirigibili di notevole valore come il Lieutenaut Beauchamps e il nuovo dirigibile rigido Spiess. Certamente la Francia si prepara a svolgere degnamente le sue gesta eroiche anche in questo campo; finora però le migliori prove coi dirigibili, pur con mezzi relativamente limitati, le ha date l’Italia. Contro a tutte queste meravigliose macchine volanti, a tutte queste insidie dell’aria si è tentato e si tenta di contrapporre una efficace difesa da terra, coi fucili, con le mitragliatrici e coi cannoni antiaerei; ma dobbiamo riconoscere anche l’efficacia di queste armi è minore di quanto si poteva ritenere, tanto che, dei numerosi voli compiuti durante questa guerra, che si contano già a migliaia, ben pochi in proporzione furono troncati dal cannone o dalle mitragliatrici dell’avversario. Un unico mezzo si è dimostrato efficace e risolutivo. Al dirigibile e all’aeroplano l’unico avversario veramente terribile è l’aeroplano: Alla macchina aerea bisogna contrapporre la macchina aerea, e allora la lotta assume le più fantastiche, le più tragiche forme; allora gli avvoltoi umani, che si scagliano contro ferocemente l’uno sull’altro, possonmo veramente rappresentare il simbolo di questa guerra spietata.

AUTORE: DOTT. ODORICO ODORICO

×

LA LETTURA - MAGGIO 1916

VERONA HA NASCOSTO LE SUE ARCHE SCALIGERE

La guerra aerea ha fatto scomparire sotto cumuli di sacchi e sotto armature di legno e di ferro i più bei monumenti delle città di confine: Venezia ha adulterato la linea severa del Palazzo Ducale con robuste opere di protezione e di sostegno, ha blindato la sua Basilica, ha seppellito la Loggetta del Sansovino; Verona ha dovuto nascondere il suo monumento più delicato e più bello: le Arche Scaligere. I mausolei che Bonino da Campione e i maestri veneziani del fecondo trecento eressero in onore degli Scaligeri, sigillando in essi una delle più belle espressioni del trionfante genio italico, sono stati coperti da grosse muraglie e da cupole di ferro. La tranquilla città veneta durante i primi mesi di guerra aveva indugiato nel quieto vivere abituale senza preoccuparsi della bufera che turbinava ai suoi confini. La tragica domenica di novembre, con l’urto di terrore che si levò sulla piazza delle Erbe insanguinata e dolorante, fu brusco risveglio e monito solenne. I reggitori della pubblica cosa e l’autorità militare provvidero nel miglior modo possibile alla difesa dei cittadini; gli artisti e i tecnici, cui è commessa la conservazione del patrimonio artistico di Verona, ebbero chiara visione del pericolo che sovrastava al monumento insigne, a questo documento meraviglioso dell’arte veneta che gli stranieri ci invidiano e che vollero lussuosamente e malamente copiare per onorare in Ginevra un loro grande condottiero: il duca di Brunswick. Poiché la sfolgorante bellezza di quest’arte riluce solo a Verona e qui bisogna gode Scaligero, fra il grande arco e lo sfondo luminoso di Piazza dei Signori, e le merlature in rovina del fortilizio vicino, poeticamente annodato, dalla fantasia popolare, alla gentile storia di Romeo e di Giulietta. Solo nell’originale è dato ammirare questo complesso di colonne e colonnine a spirale, di baldacchini esili e festosi, di merletti, di particolari finemente lavorati, di archi trilobi, di statue e profili d’angeli, di donne, di santi guerrieri; solo in Verona viene compresa, perché vivificata dalla luminosità dell’ambiente, l’armonia stupenda dell’opera che ha portato nel mondo, più che nol fece la storia, i nomi di Cansignorio, di Mastino, di Cangrande, di Giovanni Scaligero. Bisogna acver visto da vicino il bel monumento per avere il concetto esatto della statica mirabile che lo tiene unito, per capire quale rovina ne verrebbe se una qualche pertubazione esterna avesse ad offendere una sola delle sue parti. Tutte queste colonne sottili, le statuette, i baldacchini già rosi dal tempo sono tenuti sui vari ripiani da chiavarde, da listelli, da rappezzamenti aggiunti con intelligente e scrupolosa cura dagli artisti: il difetto di uno solo di questi elementi segnerebbe inesorabilmente lo sfasciarsi completo di tutto l’insieme. Non si tratta di un monumento che nella sua mole ha tanta forza statica da resistere ad una lesione in una delle sue parti: ma di una costruzione nella quale tutte le parti si sorreggono a vicenda perché legate meravigliosamente da un perfetto e delicato equilibrio. Pompeo Molmenti aveva già sollevato la questione per la difesa dei monumenti di Venezia, e la questione fu ripresa e dibattuta a Verona: - non si dovevano attuare mezzucci o provvedimenti parziali; ma bisognava costruire una difesa tale da servire contro qualsiasi ingiuria esterna, considerate tutte le forze meccaniche negative e tutte le eventualità. Non dunque era da applicarsi il sistema protettivo dei sacchi di terra che il tempo indebolisce e rovina, inadatto per lo spazio angusto, insufficiente contro i grossi esplosivi; non l’armatura in legno, pericolosa per le bombe incendiare; ma una forte custodia in muratura ricoperta da travature in legno ben ferme e da lamine di metallo. Fu innalzato un muro di ottanta centimetri di spessore, intorno alle due arche isolate di Cansignorio e di Mastino II che sono anche le più vistose; altre muraglie robuste circondano quelle di Cangrande e di Giovanni della Scala, addossate alla Chiesa, formando un tutto col vecchio edificio. La costruzione, nelle parti alte irrobustita da corsi di cotto e da cinture di cemento armato, venne al sommo coperta da una volta a piramide, molto acuta sulla quale si stabilirono con chiavi le travature per la copertura esterna metallica, con grossa rete di ferro e grosse lamine di zinco. La caduta di un grave e l’esplosione successiva, troverebbero in tal modo, egualmente su ogni punto, la resistenza necessaria, la sicura difesa. Le sagome aguzze e le statue equestri caratteristiche che il sole indorava facendone risaltare i profili ed i ricami con un cromatismo suggestivo, più non si vedono, più non accompagna ormai il passante la teoria delle statue della cancellata antica, in ferro battuto a maglia movibile, ora fasciate e avviluppate da un grosso strato di cemento. Verona è tranquilla sulla sorte delle sue Arche: la guerra ha gettato il suo manto di macigno e di ferro su questi monumenti che sono e saranno nei secoli come un modello d’arte fresca e gioiosa. Ma la guerra passerà, e i profili duri, rigidi, di questa grossolana arte militaresca scompariranno alla loro volta in un aurora di gioia, in un sospiro di sollievo. Sarà per i veronesi come il ritorno di un genio tutelare, come una simbolica rinascenza della città e del mondo latino alle pure gioie della vita e dell’arte.

AUTORE: G.TOMBETTI

×

LA LETTURA - GIUGNO 1917

DAL MARE AL CIELO - COME SI DIVENTA PILOTI D'IDROVOLANTE

Forse l'allievo pilota vive il momento più emozionante quando presenta la domanda per essere ammesso a una scuola d'aviazione. Egli non reca in sé che un elemento certo: la decisa volontà di riuscire. Ma l'attitudine a volare è per lui un'incognita la quale lo pone fra l'avidità di provarsi e il dubbio di fallire nel tentativo. La guerra ha creato un tipo speciale di volontario dell'aviazione: il pacifico borghese del tempo beato in cui non si credeva alla conflagrazione mondiale, pacifico borghese che dovendo in occasione della guerra assumersi la sua parte di azione e di pericolo, e avendo una predilezione per gli atti che derivano direttamente dalla responsabilità individuale, sceglie l'aviazione conscio di rendere un servizio militare non meno prezioso e periglioso d'ogni altro e conscio di valorizzare al massimo grado le proprie attitudini morali e fisiche in un'arma di straordinaria bellezza. Ed è per ciò che oggi l'aviazione militare aduna rappresentanti d'ogni ambiente, d'ogni cultura e d'ogni mentalità. Diversi per il loro passato, gli allievi si identificano nell'esuberanza delle loro energie, nella dedizione completa ai cimenti aviatori, nella fraternità che deriva dal comune mistero della loro sorte. Essi più o meno passano a traverso le medesime fasi psicologiche: trepidazioni e speranze della vigilia; incosciente disinvoltura durante i primi voli; poi una successione crescente di depressioni e di rivincite al contatto di difficoltà sempre più intense. L'allievo giungendo alla scuola è curioso d'ogni particolare. I motoscafi e gli autocarri che recano gli istruttori e gli scolari sembrano colmi di gitanti spensierati: e in realtà costoro si accingono a effettuare i quotidiani voli con la medesima disinvoltura con cui s’intraprende una passeggiata. La scuola aspetta con i capannoni spalancati innanzi all'ampio specchio d'acqua su cui dovranno svolgersi i voli. Gli idrovolanti sono allineati lungo la riva, ciascuno sulla propria pista di legno che dal capannone scende nell'acqua. Maestri e allievi vanno a fare toilette. Ognuno ha i propri indumenti di volo. Chi indossa lo scafandro o la pelliccia, chi un maglione, chi s’avvolge il collo d'una sciarpa, chi s’applica un passamontagna, il casco. Tutti fanno uso di occhiali e guanti. La trasformazione è sensibile. Le fisionomie scompaiono sotto le maschere e le lenti. Eleganti ufficiali assumono aspetti strani, apparenze grottesche di palombari, di clowns, le loro linee svelte si ricoprono - specialmente dopo l'applicazione del salvagente - di gonfie gibbosità. Ad ogni apparecchio corrisponde un istruttore ed una sezione di allievi. Il primo allievo cui spetta di volare - si segue un turno a rotazione - s'ingolfa nella complicazione di fili dell'idrovolante e scende nello scafo, sedendo a destra dell'istruttore dopo aver messo in movimento il motore con giri di manovella. L'apparecchio si stacca dalla riva e l'allievo, afferrato il suo volante e occupati i pedali, si accinse a manovrare. II maestro ha pure il suo volante e controlla la manovra del suo vicino intervenendo con cenni della mano o con dirette correzioni ogni qualvolta lo scolaro tarda, precipita o confonde i suoi movimenti. Gli idrovolanti partono ad uno ad uno striando lo specchio di spuma, oscillando per sollevare i galleggianti e la coda, poi raggiunta la velocità voluta saltellano e spiccano il volo. Al ritorno l'istruttore spiega gli errori commessi al discepolo e questi li attenua affermando che sono passeggeri e promettendone solennemente la sparizione per il volo successivo. Anche gli altri allievi della sezione presenziano al colloquio per immagazzinare esperienza a spese degli errori altrui. Il nuovo arrivato osserva i colleghi più progrediti come esseri dotati di misteriose facoltà del cui segreto si vuole impossessare. Timidamente egli procede alla personale conoscenza dell'apparecchio introducendosi nello scafo: con circospezione afferra il volante, lo rigira, lo attrae a sé, lo respinge volgendosi a osservare alle estremità delle ali e della coda i movimenti degli aleroni e dei timoni di profondità. Si stupisce che i colleghi i quali lo hanno preceduto spieghino la manovra come una funzione semplice. Poi rimane interdetto udendo il linguaggio d'aviazione fiorito di francesismi. Decollare: manovra per condurre l'apparecchio a staccarsi dallo specchio d'acqua; virare: mutamento di direzione durante il volo; picchiare: abbassare l'apparecchio pure durante il volo; ammarare: far riprendere all'apparecchio il contatto con l'acqua. Intanto il novizio sente parlare con rispettosa preoccupazione della manovella, il fatale strumento che serve a mettere in funzione il motore e ad imporre soggezione al novizio: - Attento ai contraccolpi. - lo avvertono gravemente i colleghi che all’esordio conobbero il medesimo patema - Bada che già vari si sono fratturati il braccio ... - Comincia così la mobilitazione dell’amor proprio: il neofita s'attacca all'insidiosa manovella, non riesce, ritenta e finalmente consegue la sua prima vittoria - girando la nemica con esuberanza trionfale. Più è prossimo il momento di volare per la prima volta e tanto maggiormente la sensibilità dell'allievo si paralizza. Pochi istanti prima di salire sull'apparecchio il novizio, non avvertendo più alcuna emozione, confonde questo stato d'animo con la tranquillità: viceversa è l'effetto di una tensione nervosa, la quale si trasforma in un fenomeno di serena voluttà non appena l’apparecchio si è librato. L’esordiente ha l'illusione che non sia l’apparecchio a sollevarsi ma il panorama ad abbassarsi, a roteargli lentamente intorno. Una improvvisa, assoluta fiducia lo sorregge: una fiducia ispirata dalla stabilità dell’apparecchio che in volo si rivela solido, imperioso, sonoro e perde l'aspetto fragile osservato da terra. La velocità non è percettibile: pare che l’idrovolante si regga su un solido perno invisibile. Il vuoto non esiste che per lo sguardo: l’atmosfera si manifesta anche al neofita un elemento consistente, soffice ma tenace in cui l’apparecchio morde e si regge vittorioso. Ma quando l'idrovolante s'inclina per iniziare la discesa, il novizio si turba. Un rimescolio passeggero agli intestini, somigliante a quello che dà l'altalena, lo coglie all'improvviso. Il silenzio che segue al fragore del motore - perché il motore viene fermato o ridotto a una velocità minima - determina una forma d'ansietà. La visione panoramica, che prima era preclusa in parte notevole al neofita dalla punta dello scafo protesa in alto, ora che lo scafo è inclinato, appare in tutta la sua vastità, come osservata da un altissimo balcone, e rivela la quota raggiunta. Si mostra come un’immensa carta geografica a rilievo. Lo specchio d'acqua appare come una enorme lastra metallica bruna e s’avvicina con crescente velocità. Quando mancano pochi metri da esso e l’apparecchio si dispone a posarvisi, si rivela fulminea la rapidità dell’apparecchio stesso: lo specchio gli sfugge di sotto vertiginosamente e il neofita trattiene il respiro in cospetto di questo imprevisto epilogo. Un lieve fruscio, un impercettibile colpetto sotto lo scafo: l'apparecchio ha preso contatto con l’acqua, solleva intorno biancori di spuma e s'arresta rapidamente.L'allievo confonde l'ammirazione per il volo con la gioia di averlo condotto a termine: certo è raggiante. Difficilmente le sue impressioni sono da lui espresse in modo genuino, perché non ha saputo analizzare sé stesso o perché ritiene obbligatorio ricorrere a una di queste due opposte frasi: «Nessuna impressione» oppure «Impressione straordinaria», accompagnate da un prolungato sorriso ufficiale finché egli si vede scrutato dai colleghi. Effetti fisici generali: ronzio alle orecchie paragonabile all'uniforme canto dei grilli, appetito accentuato e richiesta da parte dei colleghi di una bicchierata per festeggiare il primo volo. Nei voli successivi l’allievo, ammesso ad abbozzare tentativi di manovra accanto al maestro, acquista l'improvvisa persuasione che per manovrare siano sufficienti le risorse dell'istinto. La sua convinzione di riuscire diviene tanto più fiera quanto prima dei voli era esitante. Si delinea in lui l'esuberante spirito d'iniziativa: egli confonde per aquilina audacia la sua ignoranza sulle difficoltà del volo. I suoi tentativi di manovra sono senza sfumature. Se il maestro lo frena egli insiste per ottenere una maggiore autonomia. Non esita ad affermare in piena buona fede che si sentirebbe di volare da solo. Naturalmente pretende di figurare tra gli anziani. In cospetto dei nuovi aspiranti si comporta da vecchio falco, spiega con degnazione annoiata la manovra, concludendo: - É semplicissima! Ma quando I'istruttore gli affida realmente la manovra, l’allievo entra nella fase di depressione. Egli registra le nuove difficoltà nel suo diario: quasi tutti gli allievi conservano un diario con il numero e le caratteristiche dei loro voli. Oltre occuparsi delle condizioni dell'atmosfera, del motore, dell'acqua, lo scolaro osserva: «Oggi il maestro mi ha dichiarato che se egli non interveniva in tempo ci si infilava nell'acqua» - «Ho osservato che quando reggo io il volante I'apparecchio disegna le montagne russe, non appena il maestro riprende il volante l'apparecchio torna in linea di volo. Dunque non è il vento, Il maestro dice che il vento lo faccio io». - « Quando correggo uno sbandamento ne produco uno maggiore. II maestro dice che faccio fare all'apparecchio ciò che fa il cane quando è gaio; mena la coda a destra e a sinistra». Se l'idrovolante giunto presso all'acqua non è posto in tempo in linea di volo, toccando l'acqua rimbalza in aria come un ciottolo a forma di piastrella lanciato parallelamente alla distesa liquida. Di qui la denominazione di «piastrella» a questo tipo di amérissage imperfetto. La «piastrella» è l’incubo dell'allievo il quale ricorre ai più ricercati sofismi per ripudiarne la paternità. Generalmente spiega che è derivata da un complesso di combinazioni: acqua poco visibile, colpo di vento, vicinanza di una barca, ... A traverso queste prime esperienze l’entusiasmo del discepolo perde effervescenza: diviene solida meditazione. L’allievo non ha più baldanza loquace, superficiale, né severità di giudizi. Tace e osserva. Segue i voli con sguardo da iniziato, rimugina le osservazioni fatte pilotando. Dal modo come si comporta un apparecchio in aria indovina chi lo guida. Anche in aviazione, la personalità, lo stile esistono. L'allievo comincia a comprendere che la manovra non è dettata dall'istinto, ma dalla fulminea entrata in azione di abitudini contratte studiando il volo, É un ricamo di innumerevoli eccezioni intorno a un semplice concetto fondamentale, Ma per conseguire questo senso della manovra occorre vivere la vita dell'apparecchio, occorre che pilota e idrovolante compongano una cosa sola. La spirale: altra causa di crisi momentanea. L'istruttore la fa conoscere all'allievo d'improvviso ed eccezionalmente stretta per misurare la sua presenza di spirito. L’allievo vede il panorama inclinarsi e sollevarsi obliquamente come agitato da una danza diabolica, vede lago, fiumi, paesi, colli, monti roteare, sovrapporsi quasi fosse giunta la fine del mondo. Quando la spirale cessa di fatto, nella testa dell’allievo continua. Egli rimane rigido, in atteggiamento di difesa, trattenendo il respiro. Scendendo reca il sospetto di non avere attitudine per l'aviazione, ma negli esperimenti successivi si comporta anche intimamente, con assai maggiore disinvoltura fino a divenire egli stesso un abile autore di spirali per quanto ampie e caute. Affermano in maggioranza i piloti che la loro più acuta soddisfazione derivò dal loro primo volo senza istruttore. Si giunge a questa prova sospinti da un bisogno imperioso:di liberarsi dal controllo dell’istruttore. È un’apparente forma d'ingratitudine che ricopre una sostanza di rinascente idoneità. Quando l’allievo in volo si sente spersonalizzato, prova la luminosa illusione di aver sempre volato, considera normale la visione dall’alto del panorama ed è insofferente degl’interventi nella manovra del suo maestro; è evidente che la convinzione di poter volare solo matura in lui. Ciò che importa assai è la convinzione di potere condurre un apparecchio, tanto è vero che i capi-piloti fingono di mostrarsene increduli per accertarsi, a traverso le proteste dell’allievo, ch'essa esiste veramente. Se le discussioni in terra sono spesso vane, in cielo sono addirittura dannose. È necessario in volo perseguire un'idea unica, precisa, ferma. Due idee avverse nella testa di un pilota producono il medesimo disordine di due donne in una casa. purtroppo l’allievo nel suo primo volo da solo reca due, tre idee per ogni fenomeno nuovo che lo interessa. Il suo è il volo dei dubbi. I fenomeni nuovi sono: il motore, l’orientamento e la solitudine, Quando l'allievo volava col maestro questi si occupava di regolare il motore, di indicare la rotta e con la sua presenza aboliva la solitudine. Accade che l’allievo, dovendo introdurre nella sua psicologia questa nuova responsabilità, smarrisca momentaneamente l’esatto senso del solo elemento di cui era sicuro: la manovra. Assalito da nuove preoccupazioni diffida anche delle regole che già applicava con disinvoltura da tempo. Le impiega precipitosamente e provoca nell’apparecchio oscillazioni ch'egli si affretta ad attribuire al vento. Tutti i reduci dal primo volo affermano che spirava un vento eccezionale. Ma la crisi culminante del primo volo è provocata dalla discesa: - quando spengo il motore? - comincia a chiedersi il neo pilota. - Adesso. No, è presto. Toccherei acqua troppo lontano dalla scuola. però attentò a non scendere contro gli hangars. Spengo adesso. No. Si. No -. Intanto l’apparecchio, quasi avesse udito il dibattito del suo incerto pilota, si è abbassato per conto suo. L’allievo, allarmato, fa uno sforzo togliendo una mano dal volante per chiudere la manetta della benzina, e riportandola urgentemente al volante. Con l’indice destro cerca il bottoncino del magnete, per togliere la corrente elettrica, ed ha l’impressione di non trovarlo. Eccolo. Preme. Il motore tace. L’allievo inclina l’apparecchio. Troppo. Lo richiama. Teme di scivolar d’ala. Ripicchia. Teme d'imbarcarsi: - Calma, calma, se no va a finir male - raccomanda a sé stesso. La discesa finalmente procede regolare con buona velocità. S’avvicina lo specchio d'acqua. Comincia la preoccupazione per l’amérissage. Si tratta di attenuare l’inclinazione dell'apparecchio, ma con dolcezza, con sfumature quasi impercettibili. Viceversa il reduce richiama a sè il volante troppo sollecitamente: è ancora a sei metri dall’acqua. Respinge il volante ma deve richiamarlo quasi subito perché è ormai a un metro. Qualche esitazione ancora, poi alla fine l'idrovolante tocca l’acqua, un po' bruscamente e inelegantemente, ma senza eccessivi guai. Lungo respiro di soddisfazione dell'allievo il quale, riacceso il motore, fa ritorno alla scuola salutato dai colleghi che sulla rotonda lo hanno seguito in volo: - Bene, bravo - gli gridano. Ognuno vuole stringergli la mano. Il trionfatore diventa insincero. Poiché lo lodano egli assume l’atteggiamento di chi si merita la lode guardandosi dal denunciare gli errori commessi, anche perché ha la coscienza di non ripeterli più. - Quali impressioni? - gli chiedono. - Mi sono trovato molto bene. - Si vola meglio senza maestro? - Non c'è paragone. In questa fase di ascensione, caratterizzata da prove di crescente portata, il neo pilota è suscettibile di impressioni esagerate che derivano dal consumo eccezionale di energie quando ancora i suoi centri nervosi non sono sufficientemente sviluppati. Ma lo sviluppo nervoso nell’allievo di solida costituzione è alacre e gli consente di superare prove che pensate prima gli apparivano insormontabili. Un allievo che scende esausto da un esperimento non raggiunto, porta nel segreto della sua anima uno sconforto che non sa confidare e che ha il colore della sconfitta. Ma all'indomani le sue forze sono gagliarde in una misura insperata. L’esperienza del giorno precedente anziché essergli nemica, gli è alleata. La notevole altezza e la resistenza di volo sono sopratutto un risultato dell'amor proprio. La volontà ferma, orgogliosa di raggiungere la quota designata e di rimanere in aria per una durata stabilita è indispensabile come la benzina al motore. Essa servirà a neutralizzare gli effetti demoralizzanti del freddo, delle inquietudini atmosferiche, del vuoto sempre più profondo e vasto, delle nubi c della solitudine. Sopratutto durante il volo di brevetto I'allievo porta una riserva di volontà che fa di lui un lottatore. Egli s’impegna a fondo. Se il vento lo attacca egli lo affronta con l’intendimento di sfruttarlo per guadagnare più rapidamente la quota. L'apparecchio «balla» ma la sua manovra è vigorosa. In altri ambienti amiamo vincere oltre che per noi stessi anche per il prossimo, ma in aviazione si vince sopratutto per noi stessi. Un pilota che dovesse cedere al vento recherebbe con sé un incubo che graverebbe nei suoi successivi cimenti. Perciò il volo è un efficace mezzo per misurare oltre le qualità tecniche, le risorse morali dell’allievo. La cartina del barografo riproduce dell’allievo le peripezie psicologiche. Quella linea che s’innalza sicura, regolare, leggermente incurvata sino a una data quota - 1500 m., 2000 m.- poi prosegue in una alternativa di tratti rettilinei, gobbe concave e convesse e finalmente ridiscende con una rapida obliqua, narra una serie di emozioni in contrasto: serena conquista della quota di m. 2000, poi lotta col vento, incertezze del motore, suggezione della solitudine, tentazione di scendere, reazione dell'amor proprio e finalmente discesa definitiva. Talvolta la sensibilità dell’allievo viene sottoposta a una prova singolare durante una traversata di nubi, l’incontro con le quali presenta varie caratteristiche e non sempre uguali. Può risultare abbastanza placido se sono nubi bianche, a cirri, ma spesso è preceduto da un avvicinarsi scapigliato di folate vaporose, dal gelo, dalla rarefazione dell'atmosfera, dall’incrociarsi volubile di raffiche. Poi penetrato l'apparecchio in questo mondo latteo, invisibile, misterioso, il motore diviene asmatico, il pilota perde il senso dell'orientamento. Splendido è il momento in cui si esce da questa prigionia: splendido dal punto di vista tecnico ed estetico. Ci si accorge che l’apparecchio era sbandato malamente, troppo sollevato; ristabilitolo nelle condizioni normali si può ammirare a rapidi sguardi la nuovissima visione: un mare di immobili onde candide, compatte, raggianti, preceduto da lontani cirri solitari che fanno pensare alle avanguardie di un esercito fantastico. Ma la sensazione del bello è quasi paralizzata dal problema di tornare fra le nubi: problema che si risolve con una discesa a forte velocità preferibilmente dove s’apre nella massa dei vapori un pertugio che lasci intravvedere un pezzo del panorama sottostante. Vari sono gl’istrumenti che si recano a bordo per controllare la manovra: ma l’istrumento migliore, che può ridurre al minimo il numero degli incidenti, è il sistema nervoso del pilota sorretto da esperienza e da perseverante studio. Il pilota affina la sua sensibilità al punto di giudicare in volo col solo udito il funzionamento del motore, col tatto sul volante il comportarsi dell'apparecchio. Solo istrumento di cui non tende a svincolarsi è la bussola che sul mare indica la rotta, mancando ogni altro punto di riferimento. Il pilota prima di partire osserva attentamente con occhio d’iniziato l’apparecchio e il cielo. Dell’apparecchio diffida. Egli ha perduto - a questo punto del suo allenamento - la beata fiducia dei primi tempi che gli facevano ritenere l’apparecchio il più sicuro veicolo. Egli sa che anche l’assenza di un bullone, un cavo non sufficientemente teso, già roso dall'uso, possono determinare la catastrofe. Egli per volare sicuro vuole aver controllato il suo idrovolante nei più minuti particolari. E prima di partire legge nel volto infinito del cielo come gli uomini del mare e della montagna; le forme, i colori delle nubi gli rivelano l'altezza, la direzione e la velocità approssimative dei venti. Un buon pilota sente di non poter manovrare efficacemente se ignora le condizioni dell'atmosfera, dell'invisibile pista su cui procede. È evidente così come riesca impossibile al pilota esprimere le sue impressioni al profano che lo inter-roga avidamente. La sua vita quotidiana trascorrendo fra osservazioni sempre più particolareggiate di aerologia, elettrotecnica, costruzioni di apparecchi, topografia, trascorrendo in un mondo - il cielo - che per la grande maggioranza è cosa immensa di sola contemplazione, lo porta a sentire diversamente dall'umanità che non vola. - Che impressione prova? - gli chiede il profano. - Non saprei che dirle. Se vuol provare? - Ma neppure ... Si soffrono le vertigini? - No, grazie, - Però lei dimostra un bel coraggio, … E quando c'è vento? - Si « balla » e si lavora molto. - Ah perdinci, non volerei neanche … E se scappa un'ala? - Eh ... allora, ... - Che fegato occorre andare in aria! E chissà il vuoto che impressione produce! - Per noi è cosa naturale. - Io non mi abituerei. Si figuri che m'infastidisce guardare giù dal terzo piano. A che altezza vanno loro? - Anche a 5000 metri. - La saluto. Mi vien male a sentirlo dire soltanto. Il contatto continuo con il fascino e l'incognita del volo abitua il pilota a familiarizzarsi con superiori concetti di vita. Il sistematico esercizio di difendersi ogni minuto, ogni secondo da mortali insidie lo arma di una filosofia serena, robusta da cui il trepidante, pavido, assoluto attaccamento alla vita rimane estraneo. Non che l'aviatore sia indifferente alla vita. Anzi che ciò fa di lui un vittorioso è il senso acuto dell'esistenza che lo porta a superare i limiti mediocri, a dominare una più ampia vastità di sensazioni e di spazi, a riconquistare ogni giorno, affrontando necessari perigli, il diritto, la gioia di vivere. Ma l’aviatore nel segreto del suo fervore sente che le sensazioni da cui è pervaso sono così fulgide da ripagarlo d'ogni più grave eventualità. Sente cioè che è importante più che vivere molto, vivere intensamente e utilmente anche se in breve spazio di tempo. Il coraggio è la sua aspirazione, il suo ansioso desiderio. Giunge un momento in cui il mistero della sua psicologia si svela: il momento in cui una cupa minaccia lo affronta in volo. O lo coglie un'invincibile tendenza a precipitosamente scendere, oppure si afferma in lui un'opposizione sdegnosa alla catastrofe e quindi un ponderato, sagace impiego delle sue energie istruttive e di esperienza. Da queste battaglie esce plasmato il combattente del cielo che superate le avversità naturali si prepara a vincere quelle dell'aviazione nemica. È il milite nuovo che fa suo e più ampio il motto del mare: « Vivere non è necessario, ma navigare e volare sì ».

AUTORE: OTELLO CAVARA

×

LA LETTURA - LUGLIO 1917

GLI OCCHI DI ICARO SULLA FLOTTA

Un giorno, uno dei tanti profani di cose marinaresche che la politica della fronte interna ha svegliato dal profondo letargo dottorale, constatava l’esiguità. numerica dei sommergibili nemici che hanno trovato la morte sul mare rispetto al tonnellaggio delle navi affondate, e si meravigliava perciò con un ufficiale di marina dei risultati relativamente scarsi della caccia ai sottomarini. L’ufficiale, cui la saputella ignoranza dell’interlocutore aveva messo il buon umore, rispose: «Immaginate che ci siano delle formiche il cui morso velenoso uccida istantaneamente. Immaginate che queste formiche in numero relativamente esiguo siano sparse in un prato vastissimo. Immaginate ancora che queste formiche abbiano la possibilità di conficcarsi rapidamente dentro terra e che dal loro nascondiglio vi vedano non vedute, attendendo il vostro passaggio per venirvi a mordere nel tallone. E poi andate, se siete capace, a cacciarle col fucile!». La risposta è divertente. Ma in fondo alla beffa garbata è un substrato di verità profonda e immutabile. Perché sarebbe oggi puerile nascondersi che I'azione dei sommergibili, sopra tutto quando tende a impedire o a contrastare lo svolgersi regolare del traffico mercantile, è difficilmente frustrabile. Non per niente la Germania aveva tentato di opporre al blocco impostole dalla marina inglese il blocco dei sommergibili; non per niente tale tentativo aveva destato a suo tempo grave apprensione in Inghilterra. Il pericolo era evidente. La costa inglese di levante, dove di solito si svolge intensissima l’attività peschereccia, è molto esposta ad una probabile azione nemica; la notizia dei primi tristi episodi non venne che a confermare le previsioni dell'Ammiragliato inglese. La navigazione diventava difficile, la pesca quasi impossibile. Bisognava correre ai ripari. Come? É risaputo che gli aerei hanno la possibilità visiva di scorgere i sommergibili anche se immersi. Basandosi su questo principio d’ottica, lord Fisher, primo Lord dell'Ammiragliato, ebbe l’idea di andar seminando lungo la costa inglese degli hangars distribuiti a distanza uguale e non troppo grande, gli uni dagli altri. Si sarebbe costituito così tutto intorno alla Gran Bretagna un vastissimo cerchio d’ali lungimiranti che, vigilando sul mare, avvistasse il pericolo, lo radiotelegrafasse alle navi, provvedesse con lanci di bombe alla difesa e alla offesa. Portata la discussione su basi concrete, si constatò praticamente l’impossibilità di attuare l’idea geniale con i mezzi aerei allora a disposizione. Non con gli aeroplani o con gli idrovolanti che, mentre posseggono la rapidità di manovra necessaria a simile compito, non hanno poi la possibilità di arrestarsi per aria durante il volo; ciò che rende difficile e incerta l’esplorazione, malsicura l’offesa. Non coi dirigibili che, se hanno la possibilità di fermare il loro volo richiedono troppo tempo per essere messi in condizione di volare, sono troppo lenti di manovra ed hanno bisogno di hangars grandi, di lunga costruzione e costosa, facilmente visibili in lontananza. Bisognava, dunque, trovare un mezzo che avesse le qualità degli uni e degli altri, senza però averne i difetti essenziali. Un giovane e valoroso capitano di fregata inglese, mister Osborne, pensò che si poteva risolvere la difficoltà, e tre settimane dopo il bianco delfino alato navigava graziosamente sopra l’Ammiragliato di Londra; un altro mese e una flotta di apparecchi simili circondava la costa inglese con un sicuro cerchio d’ali. I PICCOLI DIRIGIBILI Così nascevano i piccoli dirigibili. Francia e Italia si rivolgevano immediatamente alla grande nazione alleata per l’acquisto di qualche esemplare. Veramente noi non avevamo da proteggere né pesca né navigazione costiera. Grazie alla magnifica, vibrante, continua attività del nostro naviglio sottile esse possono svolgersi nei nostri mari in stato di quasi sicurezza, mentre la nostra grande flotta vigile attende inutilmente al varco la flotta nemica. Ma i piccoli dirigibili potevano esserci utili in servizi d’esplorazione. Fu pertanto inviato il Inghilterra un nostro valoroso e intelligente ufficiale di Marina, il comandante Denti di Pirajno, che, collaudati gli apparecchi, ne acquistò un discreto numero per la nostra Marina. Portati in Italia, essi furono immediatamente messi in opera e se ne constatarono anche da noi gli innumerevoli vantaggi: basta pensare che un motore di 300 cavalli su di un dirigibile medio rende una velocità di gran lunga inferiore a quella resa su di un piccolo dirigibile da un motore di 100 cavalli. Essi hanno poi rapidità di manovra quasi uguale a quella di un aeroplano di tipo comune, non richiedono che un hangar relativamente piccolo, facilmente montabile e smontabile, di costruzione poco costosa, ecc. Tali qualità li rendevano adattissimi allo scopo cui erano destinati, e perciò gli esemplari acquistati in Inghilterra venivano adibiti dalla Marina Italiana ad esplorazioni sul mare e a servizi omogenei con le navi dragamine. Appare evidente che la nascita dei piccoli dirigibili è assolutamente di origine marinara, e perciò non è senza gioia che i tecnici videro ritornare sotto la direzione dello Stato Maggiore della Marina i campi di aviazione situati sull'Adriatico e sull'Jonio, anche perché la Marina italiana ha, fin dall'inizio, acquistato un vero diritto di sangue sui piccoli dirigibili. Ecco come. UN NUOVO TIPO DI PICCOLO DIRIGIBILE Per riuscire a scortare i piroscafi si stava ideando in Inghilterra un nuovo tipo di piccolo dirigibile che, conservando le qualità dei precedenti, possedesse una maggiore cubatura. Un giorno giunse la notizia che il sistema era trovato e che si stava costruendo il nuovo apparecchio. Il comandante Denti di Pirajno fu di nuovo inviato in Inghilterra ad esaminarlo. L’esame fu lungo e accurato. parve all’ufficiale italiano che il nuovo dirigibile presentasse difetti salienti specialmente nei timoni di direzione, e riferì tosto alla Commissione inglese le osservazioni fatte, proponendo delle modifiche. Ne seguì una lunga e particolareggiata discussione teorica. E tre o quattro giorni dopo la Commissione si recava all'aerodromo della Marina inglese, per l'esame tecnico del dirigibile. Era una bellissima giornata di maggio. L’apparecchio fu tratto sul prato, esaminato in ogni verso, nell’involucro, nella navicella, nei timoni di direzione, nel timone di elevazione, nel motore, nei fili, nel tubo di ricambio e di sbocco per il gas. Si fecero calcoli, si tracciarono disegni; dopo due ore di discussione le ragioni addotte dal comandante Denti furono riconosciute persuasive e si decise, per conseguenza, di modificare l'apparecchio. La Commissione stava per allontanarsi dall’aerodromo, quando l’ammiraglio Wood Kock osservò che sarebbe stato necessario di vedere il dirigibile in aria, fosse pure a quota bassissima e per qualche minuto soltanto, per avere un controllo esatto delle constatazioni teoriche. Occorreva, insomma, un breve volo di prova. E fu pregato l'ufficiale italiano, come il più provetto di tutti i piloti presenti, di tentare il collaudo. Il comandante Denti di Pirajno ebbe, forse, la sensazione fuggitiva che fare il salto in aria, come lo chiamava l'ammiraglio Wood Kock, era commettere una grave imprudenza. Ma egli era il solo ufficiale italiano presente e, vincendo l’istintiva riflessione, salì a bordo. Un ufficiale meccanico lo seguì per badare al motore e il via fu dato. Il salto in aria era cominciato. Ma appena l'apparecchio lasciò la terra, ognuno si accorse che era stata commessa una vera follia. E se ne accorse prima di tutti l’audace aviatore italiano: il dirigibile non governava coi timoni di direzione e girava col vento come una foglia morta. Bisognava tentare di scendere. IL COLLAUDO DELLA MORTE Cominciò nell’aria una lotta lenta silenziosa tenace tra la volontà dell'uomo e il vento. Gli ordegni impotenti a seguire la volontà del pilota sbattevano a vuoto come le pale dell’elica di una nave che affondi. L’apparecchio saltellava, dondolava, roteava come un ubriaco d'aria: manovrando i timoni di profondità il pilota cercò di abbassarsi seguendo le bizzarrie tortuosità del vento. Cinquanta metri, dieci, cinque. L’apparecchio obbediva. Ma, all’improvviso, un colpo di vento sollevò il dirigibile trascinandolo velocissimamente contro le quadrate case di ...Bisognava saltarle o sfracellarsi contro di esse. Il pilota tirò con tutta la sua forza il timone d’elevazione verso di sé e l'apparecchio s'impennò di 90 gradi, tragicamente; poi, come inebetito, ridiscese traballando. Ridiscese e il vento lo riafferrò, lo sbatté contro gli alberi, contro terra, fracassando la navicella e le leve: alleggerito, l’involucro risalì come una fucilata verso l’alto trascinando con sé appeso per le gambe ingrovigliate nei fili il comandante Denti. Con un braccio rotto, una costola rotta, la testa insanguinata, non aveva perso i sensi, il marinaio italiano. Si sentiva salire, si sentiva sanguinare, il braccio sinistro gli doleva forte. Il braccio sinistro? E dove era? Egli non io vedeva pendere presso all’altro nel ritmo del volo a testa sotto, sentiva soltanto che qualcuno lo toccava di dietro alle spalle. Qualcuno: certo l’ufficiale meccanico che non aveva più la forza di parlare. - Aspettate, state calmo. Ora vi aiuto. Ora faccio qualche cosa per voi.- Disse e afferrandosi ai fili cercò con il braccio destro sano di risollevarsi; ma i fili si ruppero sotto lo sforzo, e l'uomo ricadde a testa sotto. La morte rise in faccia all'eroe. Ora l’apparecchio gravitava a duemila metri su Londra filando verso nord. Baker street. ll palazzo reale. Apparvero le grandi paludi, e l’apparecchio cominciò a scendere. Nella mente del marinaio d'Italia non era più il dirigibile che scendeva, era l’acqua che saliva. L’acqua gialla delle paludi londinesi che saliva riflettendo nella chiara mattinata di maggio l'apparecchio che ingrandiva. L'uomo poteva ora guardarsi a testa sotto nello specchio di morte. - Che brutta morte! - pensò, e chiuse gli occhi. Ma la morte tardava. Un sottile soffio di vento riportava verso la metropoli la tenace vita sospesa. - Dove, dunque, andrò a morire? - SPASIMO Risalendo il pilota si ricordò di non aver visto nello specchio d’acqua, riflessa accanto alla propria, l’immagine del giovine ufficiale inglese che egli supponeva di avere alle spalle. La morte ha di queste magnifiche lucidità. Chi dunque lo toccava incessantemente? Si contorse. Guardò. Era una mano vestita di un guanto bianco insanguinato. La sua stessa mano sinistra. Il braccio fracassato sotto il primo urto si era contorto passando dietro al dorso e ora pollice e indice contraendosi ritmicamente sotto il flusso del sangue, gli davano la sensazione di qualcuno che lo toccasse. - Dove, dunque, andrò a morire? - Londra si riavvicinava lentamente. Il comandante Denti pensò che in quella posizione a testa sotto non avrebbe potuto resistere più di mezz'ora. Per conoscere la giusta scadenza della morte bastava guardare l’ora. L'orologio stava al polso del braccio sinistro rotto. L’eroe si afferrò la mano insanguinata e la fece passare al di sopra del capo: l’orologio camminava e il tic tac batteva il tempo: erano le 12:45. La mezz’ora era già passata. E allora, comprendendo che la capacità umana al dolore supera ogni previsione scientifica, il moribondo fu preso da un impeto di speranza. Lasciò libero il braccio sinistro che ritornò al suo posto dietro al dorso, e dandosi lo slancio con le gambe, si sollevò, afferrò un cavo con la mano destra e vi si sostenne saldamente. Londra appariva. E poiché l’involucro abbassava, si vedeva ora la folla che seguiva il corso del grande uccello impazzito. Dalle strade, così nere di gente che la circolazione dei trams aveva dovuto essere fermata, saliva un mormorio lento, impreciso, costante. Poi la folla tacque. L’uomo doveva essere morto. Ma dai silenzio uscì una voce più forte, quindi un battito regolare, quasi un pulsare di vita per il cielo. Gli aeroplani salivano per sparare con la mitragliatrice sull’involucro ed obbligarlo a scendere. Il dibattito del motore si avvicinava. Ora era distinto come una serie di strisce bianche e nere. Il naufrago della morte si mosse più che potè per essere veduto. Le mitragliatrici si diressero verso di lui. Egli si mosse ancora. Gli aeroplani si avvicinarono, passarono sopra, sotto; girarono attorno ma non tirarono. Avevano veduto. Impotenti a porgere un aiuto qualunque ridiscesero. E la solitudine nell’aria fu di nuovo profonda. - Dove, dunque, andrò a morire? - Quattro volte l’involucro salì, scese, risalì. Mentre si dondolava su Waltramstow, quartiere operaio londinese, una nuvola passò davanti al sole. Ne conseguì un raffreddamento del gas interno dell’ involucro e la discesa precipitosa cominciò. Solo a 400 metri da terra la discesa divenne più lenta. Uomo e involucro arrivarono sui tetti, furono sbattuti di quartiere in quartiere, di casa in casa, di fumaiolo in fumaiolo; poi l’involucro lacerato si afflosciò tra due case e cominciò la discesa per forza del peso fino a che furono a terra l’uomo e la tela. "UOMO DI FERRO" L'ufficiale meccanico che era stato balzato fuori della navicella al primo urto, si era salvato. E sopraggiunse in automobile con gli aviatori della Commissione. Essi avevano seguito per 77 minuti il tragico vagabondaggio del dirigibile. L'ufficiale italiano fu trasportato in una casa operaia dove la padrona aveva già disposto sulla tavola un lenzuolo per l'italiano morto, credeva, mentre la folla, che si era radunata davanti alla casa, vociferava, commentava, piena d'ansia e di terrore. All'improvviso il comandante Denti di Pirajno comparve sulla soglia sorretto da un ufficiale inglese. La folla tacque per incanto. - Non è morto - disse qualcuno. L'ufficiale italiano sorrise. E allora la folla, rompendo i cordoni dei policenmen, si strinse intorno all'automobile ad applaudire e a baciare la mano del sopravvissuto, sorpresa davanti a tanta calma e davanti a tanta maschia forza. Ma sorpresa anche maggiore l’ebbe il medico di servizio all'ospedale dove fu condotto il ferito. Nelle tasche dei calzoni di lui, oltre al fazzoletto e al portamonete, il medico trovò dei foglietti di appunti. Erano annotazioni prese dal comandante Denti alcuni giorni prima esaminando l’apparecchio. Uno dei foglietti insanguinati diceva; «Timoni di direzione malsicuri - Impotenti a governare. - Nessuno oserà mai pilotare tale apparecchio se non avrà modificato con ...». Qualcuno aveva osato: quello stesso che aveva scritto l'appunto frammentario: un ufficiale della Marina italiana. E l’Italia aveva acquistato così un vero diritto di sangue ai dirigibili inglesi. Quarantanove giorni dopo il comandante Denti di Pirajno rivolava con un apparecchio modificato su Londra acclamante. Ora i piccoli dirigibili, aumentati di numero, vegliano alla libera navigazione della flotta italiana. Icaro con occhi d'Argo batte le ali sul mare.

AUTORE: NINO OXILIA

×

LA LETTURA - SETTEMBRE 1917

TRA I COMBATTENTI DEL CIELO - DAL CAMPO SCUOLA ALLA SQUADRIGLIA

Un giorno, uno dei tanti profani di cose marinaresche che la politica della fronte interna ha svegliato dal profondo letargo dottorale, constatava l’esiguità. numerica dei sommergibili nemici che hanno trovato la morte sul mare rispetto al tonnellaggio delle navi affondate, e si meravigliava perciò con un ufficiale di marina dei risultati relativamente scarsi della caccia ai sottomarini. L’ufficiale, cui la saputella ignoranza dell’interlocutore aveva messo il buon umore, rispose: «Immaginate che ci siano delle formiche il cui morso velenoso uccida istantaneamente. Immaginate che queste formiche in numero relativamente esiguo siano sparse in un prato vastissimo. Immaginate ancora che queste formiche abbiano la possibilità di conficcarsi rapidamente dentro terra e che dal loro nascondiglio vi vedano non vedute, attendendo il vostro passaggio per venirvi a mordere nel tallone. E poi andate, se siete capace, a cacciarle col fucile!». La risposta è divertente. Ma in fondo alla beffa garbata è un substrato di verità profonda e immutabile. Perché sarebbe oggi puerile nascondersi che I'azione dei sommergibili, sopra tutto quando tende a impedire o a contrastare lo svolgersi regolare del traffico mercantile, è difficilmente frustrabile. Non per niente la Germania aveva tentato di opporre al blocco impostole dalla marina inglese il blocco dei sommergibili; non per niente tale tentativo aveva destato a suo tempo grave apprensione in Inghilterra. Il pericolo era evidente. La costa inglese di levante, dove di solito si svolge intensissima l’attività peschereccia, è molto esposta ad una probabile azione nemica; la notizia dei primi tristi episodi non venne che a confermare le previsioni dell'Ammiragliato inglese. La navigazione diventava difficile, la pesca quasi impossibile. Bisognava correre ai ripari. Come? É risaputo che gli aerei hanno la possibilità visiva di scorgere i sommergibili anche se immersi. Basandosi su questo principio d’ottica, lord Fisher, primo Lord dell'Ammiragliato, ebbe l’idea di andar seminando lungo la costa inglese degli hangars distribuiti a distanza uguale e non troppo grande, gli uni dagli altri. Si sarebbe costituito così tutto intorno alla Gran Bretagna un vastissimo cerchio d’ali lungimiranti che, vigilando sul mare, avvistasse il pericolo, lo radiotelegrafasse alle navi, provvedesse con lanci di bombe alla difesa e alla offesa. Portata la discussione su basi concrete, si constatò praticamente l’impossibilità di attuare l’idea geniale con i mezzi aerei allora a disposizione. Non con gli aeroplani o con gli idrovolanti che, mentre posseggono la rapidità di manovra necessaria a simile compito, non hanno poi la possibilità di arrestarsi per aria durante il volo; ciò che rende difficile e incerta l’esplorazione, malsicura l’offesa. Non coi dirigibili che, se hanno la possibilità di fermare il loro volo richiedono troppo tempo per essere messi in condizione di volare, sono troppo lenti di manovra ed hanno bisogno di hangars grandi, di lunga costruzione e costosa, facilmente visibili in lontananza. Bisognava, dunque, trovare un mezzo che avesse le qualità degli uni e degli altri, senza però averne i difetti essenziali. Un giovane e valoroso capitano di fregata inglese, mister Osborne, pensò che si poteva risolvere la difficoltà, e tre settimane dopo il bianco delfino alato navigava graziosamente sopra l’Ammiragliato di Londra; un altro mese e una flotta di apparecchi simili circondava la costa inglese con un sicuro cerchio d’ali. I PICCOLI DIRIGIBILI Così nascevano i piccoli dirigibili. Francia e Italia si rivolgevano immediatamente alla grande nazione alleata per l’acquisto di qualche esemplare. Veramente noi non avevamo da proteggere né pesca né navigazione costiera. Grazie alla magnifica, vibrante, continua attività del nostro naviglio sottile esse possono svolgersi nei nostri mari in stato di quasi sicurezza, mentre la nostra grande flotta vigile attende inutilmente al varco la flotta nemica. Ma i piccoli dirigibili potevano esserci utili in servizi d’esplorazione. Fu pertanto inviato il Inghilterra un nostro valoroso e intelligente ufficiale di Marina, il comandante Denti di Pirajno, che, collaudati gli apparecchi, ne acquistò un discreto numero per la nostra Marina. Portati in Italia, essi furono immediatamente messi in opera e se ne constatarono anche da noi gli innumerevoli vantaggi: basta pensare che un motore di 300 cavalli su di un dirigibile medio rende una velocità di gran lunga inferiore a quella resa su di un piccolo dirigibile da un motore di 100 cavalli. Essi hanno poi rapidità di manovra quasi uguale a quella di un aeroplano di tipo comune, non richiedono che un hangar relativamente piccolo, facilmente montabile e smontabile, di costruzione poco costosa, ecc. Tali qualità li rendevano adattissimi allo scopo cui erano destinati, e perciò gli esemplari acquistati in Inghilterra venivano adibiti dalla Marina Italiana ad esplorazioni sul mare e a servizi omogenei con le navi dragamine. Appare evidente che la nascita dei piccoli dirigibili è assolutamente di origine marinara, e perciò non è senza gioia che i tecnici videro ritornare sotto la direzione dello Stato Maggiore della Marina i campi di aviazione situati sull'Adriatico e sull'Jonio, anche perché la Marina italiana ha, fin dall'inizio, acquistato un vero diritto di sangue sui piccoli dirigibili. Ecco come. UN NUOVO TIPO DI PICCOLO DIRIGIBILE Per riuscire a scortare i piroscafi si stava ideando in Inghilterra un nuovo tipo di piccolo dirigibile che, conservando le qualità dei precedenti, possedesse una maggiore cubatura. Un giorno giunse la notizia che il sistema era trovato e che si stava costruendo il nuovo apparecchio. Il comandante Denti di Pirajno fu di nuovo inviato in Inghilterra ad esaminarlo. L’esame fu lungo e accurato. parve all’ufficiale italiano che il nuovo dirigibile presentasse difetti salienti specialmente nei timoni di direzione, e riferì tosto alla Commissione inglese le osservazioni fatte, proponendo delle modifiche. Ne seguì una lunga e particolareggiata discussione teorica. E tre o quattro giorni dopo la Commissione si recava all'aerodromo della Marina inglese, per l'esame tecnico del dirigibile. Era una bellissima giornata di maggio. L’apparecchio fu tratto sul prato, esaminato in ogni verso, nell’involucro, nella navicella, nei timoni di direzione, nel timone di elevazione, nel motore, nei fili, nel tubo di ricambio e di sbocco per il gas. Si fecero calcoli, si tracciarono disegni; dopo due ore di discussione le ragioni addotte dal comandante Denti furono riconosciute persuasive e si decise, per conseguenza, di modificare l'apparecchio. La Commissione stava per allontanarsi dall’aerodromo, quando l’ammiraglio Wood Kock osservò che sarebbe stato necessario di vedere il dirigibile in aria, fosse pure a quota bassissima e per qualche minuto soltanto, per avere un controllo esatto delle constatazioni teoriche. Occorreva, insomma, un breve volo di prova. E fu pregato l'ufficiale italiano, come il più provetto di tutti i piloti presenti, di tentare il collaudo. Il comandante Denti di Pirajno ebbe, forse, la sensazione fuggitiva che fare il salto in aria, come lo chiamava l'ammiraglio Wood Kock, era commettere una grave imprudenza. Ma egli era il solo ufficiale italiano presente e, vincendo l’istintiva riflessione, salì a bordo. Un ufficiale meccanico lo seguì per badare al motore e il via fu dato. Il salto in aria era cominciato. Ma appena l'apparecchio lasciò la terra, ognuno si accorse che era stata commessa una vera follia. E se ne accorse prima di tutti l’audace aviatore italiano: il dirigibile non governava coi timoni di direzione e girava col vento come una foglia morta. Bisognava tentare di scendere. IL COLLAUDO DELLA MORTE Cominciò nell’aria una lotta lenta silenziosa tenace tra la volontà dell'uomo e il vento. Gli ordegni impotenti a seguire la volontà del pilota sbattevano a vuoto come le pale dell’elica di una nave che affondi. L’apparecchio saltellava, dondolava, roteava come un ubriaco d'aria: manovrando i timoni di profondità il pilota cercò di abbassarsi seguendo le bizzarrie tortuosità del vento. Cinquanta metri, dieci, cinque. L’apparecchio obbediva. Ma, all’improvviso, un colpo di vento sollevò il dirigibile trascinandolo velocissimamente contro le quadrate case di ...Bisognava saltarle o sfracellarsi contro di esse. Il pilota tirò con tutta la sua forza il timone d’elevazione verso di sé e l'apparecchio s'impennò di 90 gradi, tragicamente; poi, come inebetito, ridiscese traballando. Ridiscese e il vento lo riafferrò, lo sbatté contro gli alberi, contro terra, fracassando la navicella e le leve: alleggerito, l’involucro risalì come una fucilata verso l’alto trascinando con sé appeso per le gambe ingrovigliate nei fili il comandante Denti. Con un braccio rotto, una costola rotta, la testa insanguinata, non aveva perso i sensi, il marinaio italiano. Si sentiva salire, si sentiva sanguinare, il braccio sinistro gli doleva forte. Il braccio sinistro? E dove era? Egli non io vedeva pendere presso all’altro nel ritmo del volo a testa sotto, sentiva soltanto che qualcuno lo toccava di dietro alle spalle. Qualcuno: certo l’ufficiale meccanico che non aveva più la forza di parlare. - Aspettate, state calmo. Ora vi aiuto. Ora faccio qualche cosa per voi.- Disse e afferrandosi ai fili cercò con il braccio destro sano di risollevarsi; ma i fili si ruppero sotto lo sforzo, e l'uomo ricadde a testa sotto. La morte rise in faccia all'eroe. Ora l’apparecchio gravitava a duemila metri su Londra filando verso nord. Baker street. ll palazzo reale. Apparvero le grandi paludi, e l’apparecchio cominciò a scendere. Nella mente del marinaio d'Italia non era più il dirigibile che scendeva, era l’acqua che saliva. L’acqua gialla delle paludi londinesi che saliva riflettendo nella chiara mattinata di maggio l'apparecchio che ingrandiva. L'uomo poteva ora guardarsi a testa sotto nello specchio di morte. - Che brutta morte! - pensò, e chiuse gli occhi. Ma la morte tardava. Un sottile soffio di vento riportava verso la metropoli la tenace vita sospesa. - Dove, dunque, andrò a morire? - SPASIMO Risalendo il pilota si ricordò di non aver visto nello specchio d’acqua, riflessa accanto alla propria, l’immagine del giovine ufficiale inglese che egli supponeva di avere alle spalle. La morte ha di queste magnifiche lucidità. Chi dunque lo toccava incessantemente? Si contorse. Guardò. Era una mano vestita di un guanto bianco insanguinato. La sua stessa mano sinistra. Il braccio fracassato sotto il primo urto si era contorto passando dietro al dorso e ora pollice e indice contraendosi ritmicamente sotto il flusso del sangue, gli davano la sensazione di qualcuno che lo toccasse. - Dove, dunque, andrò a morire? - Londra si riavvicinava lentamente. Il comandante Denti pensò che in quella posizione a testa sotto non avrebbe potuto resistere più di mezz'ora. Per conoscere la giusta scadenza della morte bastava guardare l’ora. L'orologio stava al polso del braccio sinistro rotto. L’eroe si afferrò la mano insanguinata e la fece passare al di sopra del capo: l’orologio camminava e il tic tac batteva il tempo: erano le 12:45. La mezz’ora era già passata. E allora, comprendendo che la capacità umana al dolore supera ogni previsione scientifica, il moribondo fu preso da un impeto di speranza. Lasciò libero il braccio sinistro che ritornò al suo posto dietro al dorso, e dandosi lo slancio con le gambe, si sollevò, afferrò un cavo con la mano destra e vi si sostenne saldamente. Londra appariva. E poiché l’involucro abbassava, si vedeva ora la folla che seguiva il corso del grande uccello impazzito. Dalle strade, così nere di gente che la circolazione dei trams aveva dovuto essere fermata, saliva un mormorio lento, impreciso, costante. Poi la folla tacque. L’uomo doveva essere morto. Ma dai silenzio uscì una voce più forte, quindi un battito regolare, quasi un pulsare di vita per il cielo. Gli aeroplani salivano per sparare con la mitragliatrice sull’involucro ed obbligarlo a scendere. Il dibattito del motore si avvicinava. Ora era distinto come una serie di strisce bianche e nere. Il naufrago della morte si mosse più che potè per essere veduto. Le mitragliatrici si diressero verso di lui. Egli si mosse ancora. Gli aeroplani si avvicinarono, passarono sopra, sotto; girarono attorno ma non tirarono. Avevano veduto. Impotenti a porgere un aiuto qualunque ridiscesero. E la solitudine nell’aria fu di nuovo profonda. - Dove, dunque, andrò a morire? - Quattro volte l’involucro salì, scese, risalì. Mentre si dondolava su Waltramstow, quartiere operaio londinese, una nuvola passò davanti al sole. Ne conseguì un raffreddamento del gas interno dell’ involucro e la discesa precipitosa cominciò. Solo a 400 metri da terra la discesa divenne più lenta. Uomo e involucro arrivarono sui tetti, furono sbattuti di quartiere in quartiere, di casa in casa, di fumaiolo in fumaiolo; poi l’involucro lacerato si afflosciò tra due case e cominciò la discesa per forza del peso fino a che furono a terra l’uomo e la tela. "UOMO DI FERRO" L'ufficiale meccanico che era stato balzato fuori della navicella al primo urto, si era salvato. E sopraggiunse in automobile con gli aviatori della Commissione. Essi avevano seguito per 77 minuti il tragico vagabondaggio del dirigibile. L'ufficiale italiano fu trasportato in una casa operaia dove la padrona aveva già disposto sulla tavola un lenzuolo per l'italiano morto, credeva, mentre la folla, che si era radunata davanti alla casa, vociferava, commentava, piena d'ansia e di terrore. All'improvviso il comandante Denti di Pirajno comparve sulla soglia sorretto da un ufficiale inglese. La folla tacque per incanto. - Non è morto - disse qualcuno. L'ufficiale italiano sorrise. E allora la folla, rompendo i cordoni dei policenmen, si strinse intorno all'automobile ad applaudire e a baciare la mano del sopravvissuto, sorpresa davanti a tanta calma e davanti a tanta maschia forza. Ma sorpresa anche maggiore l’ebbe il medico di servizio all'ospedale dove fu condotto il ferito. Nelle tasche dei calzoni di lui, oltre al fazzoletto e al portamonete, il medico trovò dei foglietti di appunti. Erano annotazioni prese dal comandante Denti alcuni giorni prima esaminando l’apparecchio. Uno dei foglietti insanguinati diceva; «Timoni di direzione malsicuri - Impotenti a governare. - Nessuno oserà mai pilotare tale apparecchio se non avrà modificato con ...». Qualcuno aveva osato: quello stesso che aveva scritto l'appunto frammentario: un ufficiale della Marina italiana. E l’Italia aveva acquistato così un vero diritto di sangue ai dirigibili inglesi. Quarantanove giorni dopo il comandante Denti di Pirajno rivolava con un apparecchio modificato su Londra acclamante. Ora i piccoli dirigibili, aumentati di numero, vegliano alla libera navigazione della flotta italiana. Icaro con occhi d'Argo batte le ali sul mare.

AUTORE: OTELLO CAVARA

×

LA LETTURA - NOVEMBRE 1917

L'ALA ESTREMA D'ITALIA - VITA DI SQUADRIGLIA

Se Diogene capitasse col suo lanternino in una scuola d'aviazione troverebbe finalmente i soggetti da lui ricercati: gli allievi piloti i quali sono dei saggi o almeno dovrebbero essere tali. Quando s'avvicinano al brevetto essi s'impongono rigorosamente - o almeno dovrebbero imporsi - il regime dell'equilibrio: nessuna esuberanza, nervi a posto, sobri alla mensa, presto a letto, coronando così un periodo di assestamento indispensabile per comportarsi con calcolata energia in cospetto di qualsiasi sorpresa aviatoria. Il ritmo della scuola, la successione dei voli avevano già iniziato il consolidamento, l’educazione del loro organismo. L’equilibrio fisico del volo è in diretto rapporto con l’equilibrio morale del pilota. Una scuola di aviazione risulta implicitamente tutta scuola del carattere. Il candidato all'aquila o alla corona - per il primo brevetto si fregia dell'aquila e pel secondo e ultimo sovrappone all’aquila la corona - si crea un programma attentamente meditato in cui rendimento d’apparecchio, quota da raggiungere, durata del volo e caratteristiche dell’atmosfera e del paesaggio costituiscono un tutto da attuare. L’io del partente é da giorni mobilitato e isolato: prova l’illusione che la vita aviatoria sia l’unica sua vita, immemore d’ogni altra vicenda estranea. La partenza é imminente. I colleghi coadiuvano il brevettando nella accurata toilette del volo, destinata a fronteggiare la temperatura delle alte quote, e lo accompagnano allo scalo come fanno le comari intorno alla novella sposa che va all’altare; altri colleghi con i meccanici passano definitivamente in rassegna l’apparecchio; il capo-pilota interviene a sua volta con raccomandazioni, avvertimenti ... Nessun augurio, nessun cenno di commiato, quasi questo volo costituisse un episodio usuale: poiché nella vita di un allievo aviatore un brevetto è un avvenimento eccezionale, irto di incognite, è consuetudine che le apparenze di contorno attenuino il senso di questa eccezionalità. Il partente si lancia saturo di energie, da giorni accumulate, e perciò sovreccitato; ma non appena si è librato, subentra in lui una placidità nuova; le sue energie cominciano a scorrere nell'esecuzione dell'agognato brevetto. Mette in funzione il barografo, regola il motore, controlla gli strumenti di bordo, aggiusta la manovra secondo il vento, stabilisce l'ora in cui dovrà scendere - tre ore dopo, se trattasi di secondo brevetto su idrovolanti - si prefigge un itinerario che eviti possibilmente i punti dai quali traggono origine permanenti inquietudini atmosferiche: centri abitati, corsi d'acqua, sbocchi di valli; vette nevose ... Anche le nubi sono da evitare. Il pilota se le vede accostare rapidissime. Sembra che vogliano avventarsi su lui per vendicare le solitudini violate. Il movimento che le caratterizza imprime loro aspetti di cose animate, vive, di strani mostri dai pallidi foschi colori. Sotto queste nubi randagie il panorama terrestre si chiazza di larghe macchie d'ombra. Percossi dai raggi, i fiumi, i laghi, lanciano bagliori fra la foschia, le montagne fatte tozze, basse, sembra si seguano l'una all'altra in una fantastica, lenta cavalcata ... Le valli sono ovattate da evaporazioni candide, oblunghe. Il sole strappa dalla sommità dei cirri iridescenze porporine, violacee, argentee, effetti di luce che susciterebbero esplosioni di ammirazione se non fossero osservati in volo. Perché il panorama per colui che vola non è un elemento di ammirazione, ma di orientamento. La bellezza per chi deve mantenersi in equilibrio nell’atmosfera non è comunicativa, ma fredda e ironica. La terra pare dica, specialmente al novizio: - Sono bella, ma sta in guardia di non cadermi sopra -. Il pilota diviene un ammiratore del panorama quando è ridisceso, quando la certezza della propria incolumità gli consente di sviluppare i ricordi estetici. Può divagarsi invece, durante il volo, un passeggero che nella sua inconsapevolezza non pensi ad alcuna delle insidie aviatorie, privo di quella diffidenza da esperto che induce il pilota a controllare l’andamento dell’apparecchio col sistema nervoso, con la vista, l’udito, il tatto e a traverso gli strumenti di bordo. Al ritorno da un volo il pilota è grave, reca talvolta nel viso l'ombra di un pericolo corso; il passeg-gero è quasi sempre entusiasta sopratutto del proprio « ardimento» pur non avendo avuto il più vago sospetto di trovarsi minacciato. Il passeggero quando è cognito del pilotaggio, come l'osservatore, per il fatto che vola senza poter influire su l'andamento dell'apparecchio, è più audace del pilota. Più un aviatore diventa esperto e meno volentieri vola senza avere in pugno i comandi, la sua sensibilità nella manovra reclama in lui potentemente il dominio della manovra stessa. Il primo posto sull'idrovolante, da cui non è possibile osservare la manovra, deve essere stato la sede di curiosi soliloqui allorché ospitava intenditori del volo: - L'apparecchio sbanda a destra. E perche non viene corretto? Un velivolo ci viene incontro e noi non si cambia rotta; che non se ne sia accorto il mio pilota? Ora si plana. Accidenti, che picchiata da disperati! Siamo già prossimi all’acqua e ancora si scende a precipizio; che lui non veda l'acqua? Ah sì, l'ha vista! Richiama! Ma io in questo buco non torno più! Durante il brevetto, l’allievo, non essendo ancora il suo spirito interamente allenato, deve dominarsi ricorrendo alle risorse della sua personalità migliore. A un certo punto la personalità debole gli insinua: - Si «balla» molto. Scendiamo? - E la personalità forte: - Vuoi scendere per il vento? Ma tu non produci un vento più veloce con l'elica? Perché ti hanno dato gli aleroni sull’apparecchio? Per reagire contro l'aria agitata -. La debole: - Ma debbo andare avanti in queste condizioni per altre due ore? - La forte: - E che pilota sei, allora? Tutti sono capaci di restare in aria quando non si «balla». Che diritto hai di mettere la corona se scendi per il vento? - La debole: - Tu hai ragione. Ma hai sentito che colpi proprio ora? - La forte: - Sono niente. Rifletti che fra due o tre giorni sarai in squadriglia: batterie nemiche ti spareranno contro, apparecchi nemici da caccia ti affronteranno -. La debole: - Andiamo avanti ... - E intanto è trascorsa la prima ora e mezza. Come è passata la prima metà, così passerà la seconda. Il successo si delinea. L’allenamento è già sensibile. Il volo, sviluppandosi, ha la potenza di astrarre il pilota dal mondo reale, terreno, di assuefarlo al meraviglioso: paesi, città che passano ogni minuto, celebri vette che si umiliano, l’orizzonte che si fa smisurato. L’atmosfera a 4000 metri ha come un suo profumo, una sua purezza. Più che mai il pilota è colmo dell'illusione che quella vita sia la sua unica vita, immemore d'ogni altra vicenda estranea. Le tre ore di volo sono compiute: il barografo le registra esattamente. Una trionfale gioia pervade il vittorioso, ma quella gioia é tosto sopraffatta dall’attenzione per la manovra della discesa: che il ritorno non sia soverchiamente rapido, che il motore non s’arresti, che lo sbalzo da una pressione all'altra, da una temperatura all’altra non nuocia al reduce il quale è intento ad avvicinarsi in larghe spirali alla scuola. A 2000 metri già l’atmosfera si rivela calda, persino troppo calda. Come un pingue inquilino discendendo dal quarto piano si riposa di pianerottolo in pianerottolo, cosi il pilota di quota in quota riaccende in pieno il motore e pone in linea di volo l’apparecchio per abituarsi alle atmosfere sempre più grevi che incontra abbassandosi. E un altro fenomeno si manifesta: il panora-ma, che alla partenza appariva grandioso, smagliante, ora è uniforme nei colori, piatto nelle forme. La permanenza a 4000 metri aveva aristocratizzata e insieme stancata la sensibilità dell’aviatore. Il brevettato rientrando alla scuola consegna al capo-pilota il barografo con orgoglio di padre: la cartina è la sua creatura. Sordo, stanco ma felice passa di abbracciamenti in abbracciamenti, di stret-ta in stretta di mano, risponde con monosillabi, sorrisi alla carica di domande lanciate da superiori, colleghi, meccanici; senza avvedersi accetta contemporanei inviti a pranzo, promette bicchierate e visite mentre intorno gli amici pure assediandolo, lo liberano degli indumenti di volo. Da quel mo-mento cominciano le innumerevoli repliche della sua narrazione: «Come feci il brevetto». Sarebbe servizievole, in questi casi, un cartellino da portarsi appeso al collo, con il riassunto del racconto: «Partii alle ore tali. Il vento era veloce. Nubi sparse. Arrivato a 2000 metri cominciai a ballare ... ecc. ecc.». Ma le persone alle quali il reduce non lesina particolari sono gli istruttori e i meccanici: i collabora-tori del suo successo, coloro i quali, insieme al capo pilota, avevano seguito le sue prove di brevetto con muta, insopprimibile trepidazione. Gli istruttori. Ecco il primo che abituò l’allievo al volo: tutto giovinezza, disinvoltura, doveva infondere la persuasione che è facile il pilotaggio purché l’anima sia forte e il corpo sano, allegro anche nei momenti più critici si da non allarmare l'inconscio aqui-lotto; ecco l’istruttore della precisione, meticoloso, razionale, che doveva trasformare la nascente perizia dell’allievo dallo stato istintivo allo stato riflessivo comprimendone i moti sino alla giusta misura; ecco l’istruttore della idoneità, taciturno, immobile, come sonnacchioso durante il volo, sì da lasciar persuaso l’allievo d’esser lui solo il responsabile della manovra, che torna repentinamente al comando e ingaggia spirali strettissime, frena il motore, lo riaccende per abituare alle sorprese i nervi dell’allievo. E i meccanici? Sono gli oscuri organizzatori del successo, i pazienti studiosi del motore di cui vigilano ogni più delicato e recondito congegno. La bella, regolare sonorità del motore in marcia è il loro premio, il loro canto di vittoria, come ogni suono non ritmico, non fluido fa arguire loro un’irregolarità che limita le energie dell’organismo metallico. Talvolta il motore viene accusato, ora a torto ora a ragione, di aver fatto fallire un brevetto. Se poi al mancato brevetto si aggiunge la «scassatura» dell’apparecchio, l’allievo pilota entra in una fase di desolazione. La «scassatura» si produce quando ormai il suo autore è convinto della propria infallibilità, quando pensa: - Io non scasserò mai; chi scassa è un inetto! - Le cause predominanti della scassatura possono essere: distrazioni dell’allievo, il vento, lo specchio dell’acqua o le onde. Avvenuto il guaio, l’allievo ha l’impressione di avere commesso un delitto. Ma un delitto colposo. In cospetto della sua vittima sente a sua volta d’essere vittima di una sorte immeritata. Gli sovviene quindi d’essere atteso al campo e un senso quasi di ... raccapriccio lo co-glie pensando al capo-pilota indignato, ai colleghi ironici, allegri che gli grideranno: - Paga, paga! - - Che cosa? L’apparecchio? - - No, no: da bere -. Lo scassatore non vorrebbe più tornare (momento d'infantilismo) ma lo viene a rimorchiare un motoscafo che lo trascina come innanzi a un tribunale. Il capo-pilota è sullo scalo in atteggiamento monumentale: volto crucciato, sguardo fisso, braccia conserte. prepara il «cicchetto». L’apparecchio con un’ala a sbilenco, i galleggianti schiacciati e magari con lo scafo bucato è ormai alla sua pista; il reduce con fisionomia da condoglianze ascolta la rampogna. - Se lei - esordisce il capo-pilota - avesse prestato maggiore attenzione ... Dopo un minuto o due di svolgimento. la conclusione: - Lei sarà sospeso temporaneamente dai voli e vedremo se sarà il caso di farle pagare i danni. Lei oggi mi costa 30.000 lire! – Che cosa rispondere? L’apparecchio a brandelli lo accusa. Chi rompe ha sempre torto anche se qualche collega gli osserva: - Non si riesce grandi piloti se non si scassa. Il tale (e nomina una celebrità) ha scassato venti apparecchi. Il tale altro (e nomina un’altra celebrità) quindici -. Un altro collega fa questa considerazione: - Si capisce che sei un novizio. Per aver messo fuori uso un idrovolante sembri disfatto: ti si potrebbe raccogliere a cucchiaiate. Viceversa dovresti compiacerti d'aver dimostrato che sai sfasciare un apparecchio restando tu incolume -. Filosofia arida di indifferenti! L'autentico conforto lo sfortunato se lo procura accostando un altro collega al quale sia accaduta di recente la medesima disgrazia. Perché il mondo di un campo d'aviazione, nelle ore dei passi perduti, si suddivide spontaneamente in tanti gruppi secondo le affinità psicologiche: gli scassatori, gli eliminandi, gli «scivolati d'ala», i neo-brevettati, ecc. Gli scassatori si sfogano contro il vento, si occupano unicamente del loro incubo, adottano nuove regole di manovra e ne ripudiano altre. Non appena riprendono a volare si comportano con circospezione da esordienti e il felice esito del nuovo volo dà loro la sensazione di essersi riabilitati, per cui riesce loro facile riprendere la linea ascensionale pur non disponendo della primitiva presuntuosa disinvoltura, ma anzi applicando l'esperienza derivata dall’incidente. Gli eliminandi sono come sotto processo: su di loro grava l’imputazione di non avere conseguito progressi proporzionati al numero dei voli effettuati. Qualcuno di essi ha già compiuto il volo di prova. Quale peripezia! L’ eliminando dirigeva la manovra e l’istruttore gli stava a fianco pronto a evitare un disastro. Eroico istruttore. Si vedeva l'apparecchio fendere l'aria a zig-zag, su e giù, inclinato trasversalmente, puntare un bosco, poi evitarlo a un tratto, scendere a precipizio, poi risalire a forma di montagna russa. L'allievo ridiscendeva congestionato ammettendo di aver fatto errore, ma attribuendone la causa all'emozione di sapersi sotto esame e al fatto d'averlo, l'istruttore, corretto con gesti disperati e urla feroci. L'istruttore da parte sua asseriva d'essersi salvato per miracolo. Altre volte s’era visto un eliminando portato come passeggero perché si abituasse al volo, scomparire completamente entro lo scafo, ed esclamare al ritorno: - Quando alzavo la testa ed aprivo gli occhi vedevo un magnifico panorama! - Di un terzo si narrava che accompagnasse la sua manovra con dei commenti esplicativi: - Comincio a scendere. Siamo a cinquanta metri. Siamo a venti. Richiamo un poco, un altro poco. Siamo a dieci metri. - Pum! L'apparecchio aveva toccato acqua violentemente. E l’istruttore: - I dieci metri rimasti, li faremo un'altra volta -. Gli «scivolati d'ala» sono intenti a chiedersi se rimane loro ancora la vocazione di volare dopo la caduta. Precipitati una volta non escludono di precipitare ancora. Se però riescono a ricostruire la vera causa dell’incidente, possiedono elementi per tornare con fiducia al pilotaggio: maggior prudenza, conoscenza di un'emozione rara ed eccezionale che è - quando la caduta perdona - un collaudo dei nervi. Se al contrario considerano misterioso il motivo del loro infortunio, non, hanno altra soluzione che ritirarsi dall’aviazione; l’incubo della misteriosa caduta non, cesserebbe dal turbarli. I neo-brevettati sono agli antipodi psicologici degli «scivolati d'ala». Spediscono e ricevono telegrammi, lettere in abbondanza rigurgitanti d'ottimismo augurale, i loro discorsi sono delle fanfare, le aquile e le corone splendide d'oro, già da qualche settimana pronte nel più segreto angolo, sfolgorano al sole (se c'e il sole). Scoccano intorno le ultime discussioni: - Quelle corone - afferma un collega - sono troppo cariche d’oro. - Io le preferisco su fondo nero - Troppo grandi quelle corone. - Tutt'altro: stanno benissimo; sono fatte per essere vedute -. Il neo-brevettato gusta intanto il piacere di recare il nuovo fregio: se capita a tiro di uno specchio come fare a non rimirarsi ? Se si vede osservato, tutta la sua vanità gorgoglia. Ma la vacanza dello spirito é breve. Non appena giunge il telegramma di servizio che lo destina in squadriglia, al neo-pilota militare si schiude tutta una serie di sensazioni nuove, una successione di ostacoli che la nostra massima nemica - l'immaginazione - si compiace di colorire a tinte gravi, forse per farci giudicare più facile e attraente la realtà. Il nuovo pilota considera che gli verranno affidate delle persone da portare in volo, delle missioni da eseguire in guerra, che dovrà ingaggiare combattimenti a grandi altezze, procedere avanti fra lo scoppiare dei proiettili. E tutto questo programma esercita un doppio effetto sull’animo del candidato alle battaglie del cielo: meditazioni intense. gravi, e un fascino trascinatore, luminoso. Certo la squadriglia segna un distacco netto dalla vita fino allora vissuta; si entra in un mondo assolutamente nuovo per lui. La squadriglia più prossima al nemico, quella che fissa gli sguardi negli occhi dell’avversario e che ha gli sguardi dell'avversario fissi nei suoi occhi, era già in vista dei nuovi piloti in viaggio «dove la terraferma si trasforma in laguna e la laguna si confonde col mare aperto». La placidità vermiglia del tramonto era animata da un idrovolante che sembrava roteasse sui nuovi venuti per dare loro il saluto del cielo che li aspettava. E i nuovi venuti provarono quel senso di gelosia, di ansietà che coglie l'aviatore quando, non volando da vari giorni, assiste al volo altrui. L’apparecchio incrociava fra la superstite basilica che afferma nella solitudine l’immortale gloria di Roma e l'isoletta antichissima, foggiata come avanguardia di Venezia, protesa a fissare le insenature «ove, prima o poi, giungeranno i nostri reggimenti e le nostre bandiere». Poi scese la sera di guerra: tambureggiamento di artiglierie, indagini nel cielo di razzi e di proiettori dalle linee non lontane: i veterani della squadriglia parlavano con linguaggio pacato, semplice delle imprese compiute e da compiere. Passavano nei loro racconti e nei loro progetti cenni austeri, sereni a combattimenti aerei, cenni a drammatici violi notturni fra le inimicizie del cielo e del mare e le insidie delle artiglierie e dei proiettori (uno dei veterani era «sbandato» sul lato sinistro per un paio di costole compromesse durante un tempestoso ammaraggio notturno; un altro era fregiato da una cicatrice in fronte per un ugual ritorno). Tornavano alla memoria certe notti d'ansia per apparecchi che non riapparivano, vaganti per il mare, trattenuti da una secca, mentre rapidissime, minuscole unità l’andavano cercando. Col muto linguaggio delle segnalazioni luminose, idrovolanti e motoscafi si erano ritrovati mentre le prime rose dell'alba si spargevano sulla gioia del ricupero, della salvezza, della missione felicemente compiuta. E i veterani della squadriglia si mostravano esperti della opposta, visibilissima costa militarmente nemica, ma psicologicamente sorella, nei suoi armamenti, nei suoi obbiettivi vulnerabili. Ognuno di essi ne aveva battuto a fuoco una zona bellica e rievocava un suo apparecchio avversario fugato o colpito. I sopraggiunti aquilotti, che avevano ascoltato attoniti e con un segreto germogliare, di emulazione, furono all'indomani portati in volo da un'aquila dagli esperti artigli, nel cielo delle battaglie, tra le prime raffiche della fredda ostile «bora». E non appena l’idrovolante si fu slanciato dalle onde apparve la magica curva verso cui si protendono le ansie italiche. La città bramata, in cospetto del mare conteso, degradante dai colli al mare, diffusa fra il candido castello imperiale e la baia un tempo operosa, era irrorata di luce dal primo sole e tendeva i suoi moli come braccia supplichevoli. Gli aquilotti si alzarono in segno di saluto figliale e di muto proponimento. Poi il loro sguardo si volse al fiume famoso ed alle tragiche ondulazioni d’oltre fiume. Sembrava che in questo dominio della guerra pesasse la solitudine se improvvisi fiocchi di fumo, simili a minuscoli cirri radenti il terreno, non avessero affermato le ostilità. Laggiù nell’irregolare bizzarra maglia delle trincee sottilissime, nel picchiettio dei baraccamenti erano invisibili le nostre armate, quelle armate che avrebbero assistito ai voli di guerra dei nuovi aquilotti. E i voli cominciarono. E vennero le notti lunari in altri tempi incantate d'amori e di contemplazioni ed ora fragorose di motori e di artiglierie, vennero le partenze ognuna delle quali poteva non avere il suo ritorno e venne ai nuovi piloti l’anima bellica, temprata come una corazza d'acciaio.

AUTORE: OTELLO CAVARA

×

LA LETTURA - DICEMBRE 1917

AEROPLANI DA BOMBARDAMENTO

Una brughiera sterminata che diventa azzurra a perdita d'occhio come se sconfinasse nel mare. Gli apparecchi - grandi, potenti, solidi - allineati fuori dagli hangars con la loro sagoma elegante e bizzarra, splendida di vernice e di sole. Un grande rombo di eliche in moto, ed ecco, ad uno ad uno, con uno scorrere rapido delle ruote prima, con un rapido balzo in un vortice d'aria poi, gli aeroplani partono. In cielo, sembrano inebriarsi di azzurro e di luce, e da lontano mandano un rombo unico, musicale e potente, intonato da una voce unisona di motori, dal giro vertiginoso delle eliche molteplici. Lo stormo è partito, Poi silenzio, con quel lontanare di colori, bianco, rosso e verde, sulle linee dell'orizzonte più lontano, seguito dall'ansia di coloro che rimangono, ancora attoniti del miracolo che sempre si rinnova, e un poco presi dalle preoccupazioni, poiché la via è lunga, l’opera difficile, la meta lontana. Così i nostri apparecchi da bombardamento - i nostri Caproni - sono partiti per Lubiana, per Pola, per Fiume, per Trieste, per obiettivi che richiedono ore di navigazione, un sereno coraggio, un lucido eroismo di fronte ai pericoli molteplici, ed una forza di resistenza non comune. Dovunque, dove l'offesa del cannone non può giungere, dove il nemico prepara in piena fiducia la sua guerra, dove i centri vitali dell'esercito avversario offrono maggiore importanza e maggiore delicatezza, han portato la loro azione; tonnellate di esplosivo, bombe numerose e terribili, dall'esplosione vasta, fragorosa, travolgente, oppure bombe incendiarie dalla fiamma folle, allucinante con i suoi guizzi, struggente come il fuoco greco cui nulla resiste ... I comunicati di guerra registrano le gesta: nostri aeroplani da bombardamento. Il traffico di una linea ferroviaria, allorché più urgeva di movimento per trasportare rincalzi alle prime linee, è stato interrotto per giorni interi: stazioni abbattute, binari divelti, locomotive sventrate nei loro depositi: perfino treni inseguiti e colpiti e frantumati coi loro vagoni carichi di soldati di esplosivi, alloggiamenti di truppe di rincalzo, salmerie, depositi di munizioni, sedi di comandi e mense di ufficiali, parchi del genio e di artiglieria Colpiti e distrutti, cancellati. A Pola - repetita juvant - ha scritto Gabriele D'Annunzio nella prosa del suo «Asso di Picche» - vasti incendi nell'arsenale e negli stabilimenti, scoppi imponenti di depositi che hanno illuminato sinistramente la notte, navi colpite all'ancoraggio, e forse due sommergibili distrutti, che hanno visto giungere l'offesa dall'alto da un cielo vendicatore e punitore. I soldati, dalle trincee guardano questo veleggiare sicuro dello stormo, queste ali protese dalla nervatura diritta e potente, e ne traggono fede per la loro ansietà di vittoria. L'offesa prenderà alle spalle il nemico ostinato, i mitraglieri cuciranno il loro rapido lenzuolo di morte sulle linee avversarie, mentre l'occhio è fermo alla mira non meno della volontà per collocare al segno la bomba, liberata dalle secure, pronta con l’innesco micidiale. Vita di bordo. Nel rombo delle eliche, fra i grandi serbatoi della benzina, i due piloti ai volante. Dinanzi a loro i quadri dei comandi, la bussola, l'altimetro, il cronometro, gli strumenti di bordo.Sono essi la vita dell'apparecchio, sono essi il fulcro ideale intorno al quale gravitano tutte le audacie, le speranze, la certezza di giungere alla meta per superarla, il desiderio del ritorno. A prua, sul limite della carlinga, l’osservatore con le sue carte di rotta ed il suo freddo spirito impassibile di indagatore di strade, cercatore dì stelle, maestro di vie, perseguitore di bersagli. Il suo occhio dietro gli occhiali grandi e deformi si protende ad esplorare l'abisso, si acutisce sulla mira della mitragliatrice. C'è un caccia nemico alle viste. Dall’estremo opposto della carlinga vasta e lunga, il motorista salito in torretta fa scorrere nel cerchio la sua arma, pronto anch’egli all'evento. Quattro uomini legati uno all’altro da questa solidarietà di pericolo, da questa divisione di lavoro che crea comunanza di necessità tra le diverse funzioni, da questa abitudine di comprendersi ... a volo, per segni da questo apparecchio fragile, di tela, di legno, di acciaio ... Navigazione nell'aria di queste quattro volontà. Nel cofano le bombe piccole, nei lanciabombe quelle grandi: in tutto circa quattro quintali di esplosivo; il traguardo di mira a fianco del pilota di destra. Il motorista è intento ai motori: al rombo pieno ed intonato, al calore delle parti, al giro delle eliche. Regola l'olio e l'acqua. Se è necessario esce dalla carlinga, si porta sull’ala, compie le operazioni delicate e difficili nella scia turbinosa della velocità, dei 150 km all'ora. Le ali rimangono ferite talvolta. Si passa traverso cortine di fuoco, nembi di acciaio. Le fiamme giungono vicine, abbacinanti, la carlinga si riempie di fumo, l’apparecchio freme in tutte le sue giunture, squassa la sua nervatura di acciaio, i suoi tendini sottili e guizzanti. L'apparecchio è colpito. Sono le eliche che si frantumano, uno squarcio nella tela che scopre le centine e i longaroni come uno scheletro macabro, un serbatoio che rovescia benzina, una fiancata della carlinga che parte, un timone squarciato, un improvviso arresto di tutto il sistema di propulsione. L'apparecchio freme, s'impenna, ritrova il suo equilibrio. E si va ancora e si cerca un campo di atterraggio o si precipita giù di peso per sfracellarsi al suolo con l'apparecchio, nella bellezza di questa morte ebbra di azzurro e folle di velocità. Colpito in pieno da un colpo nemico nei cofani delle bombe un aeroplano precipitò tempo fa in fiamme come un'immensa meteora. Precipitò in campo nemico portando - con lo scoppio delle ultime bombe pel calore della benzina fiammeggiante - ancora la morte fra i soldati accorrenti, quasi obbedisse ancora ad un predestinato destino, ad un'implacabile legge. Altri colpiti dall'artiglieria ebbero squarci profondi, ferite terrorizzanti. E ritornarono in campo italiano col loro carico di splendida giovinezza o col loro carico di morte. Non tutte le ferite impressionanti dell'aeroplano sono però temibili. Ve ne sono invece di piccole ed insidiose che colpiscono l’apparecchio in punti delicati e lo rendono malfido e lo paralizzano. Gli atterraggi fuori campo, quella ricerca affannosa di una radura in cui posarsi, quella lotta lunga e terribile con l'aeroplano sbandato, coi comandi che non obbediscono, quella disperata speranza di una resistenza che il cervello calcola impossibile, sono allora angosciosi. E la vita riprende a terra con un'ansia folle, con un palpito lungo di gioia, con un battere delle vene più dolce di un meraviglioso amore, o con uno stupore attonito come di chi torni da un sogno lungo, oltre l’umana vicenda.

AUTORE: G. S.

×

LA LETTURA - APRILE 1918

DRAGHI, SALCICCIE E ALTRI VOLATILI

Perché mai i loro inventori tedeschi li abbiano chiamati «dracken» non è ben chiaro. In verità, a vederli dondolarsi in aria così tozzi e goffi, nessun latino avrebbe mai potuto associare la loro immagine a quella dei mostri favolosi con cui battagliarono vittoriosamente San Giorgio e il paladino Rinaldo. Ma tant'è: i tedeschi li chiamarono così, «dracken-ballons», palloni-draghi, e cosi continuarono a chiamarsi da noi. I francesi li ribattezzarono più realisticamente «saucisses»; e gli inglesi, traducendo dal francese, «sausages». Fra drago e salsiccia, tutto sta a intendersi. Dracken-ballons, o palloni-draghi, o salsicce inglesi o francesi che fossero, erano in verità delle bizzarre bestie aeree, con quel loro fare fra il curioso, l’indolente e il disoccupato con cui guardavano le cose della guerra. Dico erano, perché ormai da un paio di mesi altre bestie non meno ma differentemente bizzarre li vanno man mano sostituendo sulla nostra fronte. Il pallone-drago scompare dalla nostra fauna aeronautica e cede il posto a un altro affare aereo, che si riavvicina al vecchio pallone sferico con l’aggiunta di una specie di grossa coda trilobata, e si chiama con estrema semplicità: «pallone-osservatorio italiano» o più semplicemente ancora «A.P.», iniziali dei nomi dei due ufficiali nostri che lo inventarono, capitano Avorio e capitano Prassone. Il vecchio dracken aveva un pò l’aspetto di un cetaceo: questo ricorda il pesce-palla. Il primo A.P. fece la sua apparizione il 5 febbraio scorso dinanzi a Ponte di Piave. Gli austriaci non se l’aspettavano, e dovettero rimanere estremamente sorpresi della sua apparizione perché subito un Aviatik da caccia si levò d’oltre Piave per venire a vedere di che bestia si trattasse. Dirò poi che cosa accadde. Ritorniamo per ora al vecchio dracken. Il quale è stato sempre, per il fante, una specie di pleonasmo della guerra. La gente di trincea non è mai riuscita a comprendere bene che cosa ci stessero a fare, lassù per aria, quei grossi bachi dal ventre giallo e dal dorso d'argento. L’opinione, generalmente diffusa era che fosse un modo come un altro di prendere il fresco e che quelli che c’eran dentro non potessero veder nulla d’interessante, neanche quando, sul Carso, dondolavano lentamente il muso tozzo verso il nemico a tre o quattro chilometri dalle prime linee, sopra i ruderi di Doberdò o sull’ulti-ma gobba del San Michele. Perché non si dovesse veder nulla da un osservatorio d’un migliaio di metri d'altezza piantato a poche migliaia di metri dalle linee nemiche, quando c’erano degli osserva-tori terrestri a distanze anche maggiori di cui nessuno metteva in dubbio l’utilità, non si comprende. Ma così. Il soldato ha lo scetticismo facile. Quel bestione aereo non lo persuadeva. Vero è che lo impensierivano quelli nemici. E quando di là da Voiscizza, da Novelo, dall’Hermada si levava nel cielo un dracken austriaco a curiosare sulle cose nostre il fante si indispettiva e lo ingiuriava coi nomignoli più pittoreschi e se la pigliava colla nostra artiglieria che non lo buttava giù. Lavoravano, invece, i poveri buoni modesti nostri dracken; in aria dall'alba al crepuscolo, spiavano tutto quello che il nemico faceva, ne sorvegliavano ogni mossa, ogni segno di attivitò, tenevano d'occhio i suoi cannoni, cercandone i nascondigli, fissandone le postazioni e registrandone le vampe una per una, rilevavano sulle prime linee le sistemazioni difensive, lo svolgimento delle trincee, i mascheramenti, e più addentro i movimenti stradali, le affluenze ferroviarie; e sulla scorta dell'assidua minuziosa osservazione giornaliera dirigevano gli aggiustamenti di tiro delle nostre batterie. II fante guardava dalla sua trincea le grandi fumate dei nostri grossi proiettili sullo sconquasso delle trincee nemiche e gongolava. «Bene, quest'artiglieria». E si voltava indietro quasi a cercare dove fosse. Vedeva invece la fila di dracken dondolantisi pigri nel cielo, con quella loro aria sfaccendata, si rideva «Buoni, quelli lassù ». E non pensava che intanto, fra «quelli lassù», e «quelli laggiù» correva-no pel filo telefonico discendente dalla navicella ai comandi di gruppi e di batterie, rapide conversa-zioni a cui egli doveva quel suo gongolare. «Colpo lungo ... Due ettometri in più ... trenta millesimi in meno ... Colpo corto,... mezzo ettometro in meno ... Colpo arrivato in pieno ... Ripetere il colpo»! Oppure: «Nuova batteria nemica apre il fuoco, quadretto 236 ovest ... Controbattere ...» E dopo un poco: «Colpo in pieno su postazione di sinistra. Batteria nemica tace. Sospendere il fuoco». Oppure: «Colonna di truppe in marcia fra Voiscizza e Temnica lungo il primo tratto di mascheramento ...». Di sotto rispondevano: «Parte salva di batteria a tempo». Qualche istante e la navicella annunziava: «Tiro aggiustato ... Colonna scompigliata ... Ripetere la raffica, dieci millesimi in meno ...» Muti e goffi, i buoni bachi gialli e argento pareva fiutassero il vento senza far nulla. Stralcio dalle statistiche delle ascensioni di un raggruppamento, quello dell’armata del Carso, il riassunto quantitativo del lavoro di sette palloni in tre mesi, dall’agosto all’ottobre scorso: ore di ascensione, 4850; vampe e postazioni di batterie nemiche rilevate, 3054; nostri tiri diretti 1312; movimenti stradali segnalati dietro le linee nemiche, 2226; movimenti ferroviari intorno a Komen, a Vogersco e a Nabresina, 1680; nuovi mascheramenti di strade carsiche, 22. Venne la triste fin d’ottobre, e l'ordine della ritirata. Sgonfi e ripiegati sui loro carri d’ormeggio e di manovra, i buoni «vesciconi» come li sentii chiamare una volta da un fante toscano, presero dal Carso la via del Tagliamento. Sostarono a Casarsa. Qui fecero nuove ascensioni, sorvegliando i movimenti di avanzata del nemico. Tristi giorni, tragiche osservazioni. Per tutte le strade, di qua e di la dal fiume, fluiva ininterrotta, inesauribile, una marea confusa di uomini e di carriaggi, che ogni tanto si arrestava, si ingrossava, rigurgitava in qualche punto morto, come un torrente contro una chiusa, finché sforzato l'ostacolo prorompeva oltre tumultuando confusamente, si spargeva pei campi in un brulichio scomposto, anneriva il greto, si dileguava lontano, lontano ... Fin dove? Dovunque, per tutta la piana, da Udine al mare, fumigavano gli incendi. Il Carso scompariva nella foschia fumosa. Gli osservatori discendevano muti, con volti di strazio, con occhi di pianto. Fin dove? Fin dove? La ritirata continuò, con le prime fiere resistenze. Il raggruppamento aerostatico passò il Piave. Cominciava la resistenza grande. Col primo riassestamento delle forze sulla nuova linea ricominciarono le ascensioni. Immediatamente il nuovo terreno di guerra lungo il basso Piave, piano e monotono, privo di qualsiasi rilievo che potesse costituire un punto di osservazione, mise in grande valore l’opera degli osservatori aerei. I primi giorni avevano funzionato da osservatori terrestri i campanili dei villaggi lungo il fiume. Ma erano facile bersaglio ai cannoni austriaci. Ogni tanto una campana colpita lanciava un gran grido di agonia seguito da un rotolio sinistro. La cella campanaria precipitava, del campanile restava su un monco scheggiato, che continuava a franare sotto i nuovi colpi. In meno di due settimane tutti i campanili erano a terra. Rimasero a vigilare la piana invasa, i dracken. Se ne comprese allora l’utilità vera. Il fante cominciò a considerarli e a guardarli con un certo rispetto. Per quanto guardasse davanti a sé, non riusciva a vedere, di là dal fiume, che una uguale impenetrabile infrascatura di ramaglie basse. Di lassù, certo, si doveva vedere invece qualcosa di più. E poi, anche loro, da un pezzo, le stavano passando brutte. Ogni tanto, con quei dannati aeroplani austriaci, eran combattimenti da far venire i brividi anche alle vecchie cotenne di trincea. Più d’uno l’avevan veduto sflosciarsi, fumigare lento lento per qualche istante, poi squarciarsi in una gran vampata e venir giù lasciandosi dietro un gran nastro di fumo nero. E quelli ch’eran sopra? Eccoli, lassù, in aria poco distante dalla scia nera ... Si è visto prima un fagotto che precipitava per un centinaio di metri: poi s’è fermato; s’è trasformato in un ombrellino che viene giù lento lento, con un pupazzetto nero attaccato sotto, penzoloni nel vuoto ... Eccone uno: e poco più là un altro. Vengono giù di conserva: i pupazzetti muovono le braccia, fanno dei gesti, sembra si parlino. Sono ancora a sei o settecento metri d’altezza. Dalle trincee i fanti guar-dano e trattengono il respiro. Il dracken colpito è già a terra e fuma fra la ramaglia come un pagliaio incendiato. I due ombrellini continuano a discendere. I pupazzetti sono già degli uomini, si vedono i loro gesti distinti, si vede uno sventolare il berretto a salutare. «Bravi pallonari! Bravi! Evviva!» Il fante si commuove e grida e applaude. In tre mesi, sul Piave, dal novembre a tutto gennaio, il raggruppamento disceso dal Carso ha sostenuto 58 attacchi nemici. Fierissimi concentramenti di tiri d'artiglieria, e risolute aggressioni di aeroplani, hanno tentato quasi quotidianamente di buttare giù gli importuni sorvegliatori. I palloni si sono difesi, con abili manovre di spostamento, e sono discesi, spesso feriti, mentre le mitragliatrici del campo e le batterie antiaeree discacciavano gli aggressori. Sei volte le ferite furono mortali: il pallone cadde in fiamme. Ma sempre l’osservatore o gli osserva-tori che c’erano sopra si salvarono precipitandosi fuori dalla navicella e arrivando a terra ciondoloni sotto l'ombrello del paracadute. Il fante che li ha visti venir giù, che ha visto con che accanimento il nemico li attacchi, si è ormai ricreduto sul conto dei palloni e dei «pallonari». Ha capito che star lassù non è comodo: e che chi ci sta non ci sta per prendere il fresco: tanto è vero che il nemico fa il possibile per non farcelo stare. Ora li guarda dondolarsi in aria, e non li chiama più «vesciconi», o con altri consimili nomignoli canzonatori o dispregiativi addirittura. Ci sono lassù degli occhi che guardano per lui, dove egli non può vedere: che perciò lo proteggono. I palloni, vecchi dracken o nuovi A.P., si vanno facendo una popolarità. Anche gli aviatori, che finora guardavano i «pallonari» con qualche sfumatura d'ironia, come una minor gens dell’aria, hanno mutato opinione da quando sono cominciati i «salti». In apparecchio se si va giù - mano a tutti gli scongiuri e a tutte le scaramanzie! - è l’apparecchio che casca. Non c’è che farci. Si va giù e ciao. Ma essere dentro una navicella a un migliaio di metri e più da terra, con ancora tutta l'apparenza della stabilità, e soltanto perché dal ventre del pallone si vede uscire un filetto di fumo, e spesso anzi, senza neppure veder nulla, perché da terra vedendo quello che dalla navicella non potete vedere vi telefonano: - Buttati giù - dover scavalcare la navicella, sedersi sul bordo, guardare in giù, darsi una spinta in avanti, e giù, nel vuoto - bé, questa è una faccenda che mette pensiero: un pensiero che mette nel filo della schiena un certo brivido. «Noialtri - mi diceva un aviatore - ci butta giù il destino. L’aerostiere si deve buttar giù da sé. Preferisco fare l’aviatore». C’è il paracadute, è vero. Ma c'è sempre quel dubbio: e se non si apre? Perché la cosa funziona così. L'osservatore aereo ha costantemente attaccata dietro le spalle, quando è nella navicella, una corda che è legata all’altra estremità al paracadute, il quale è ravvoltolato strettamente e chiuso dentro un cono appeso con la bocca all’ingiù fuori della navicella. Quando l'osservatore fa il salto nel vuoto non deve pensare a estrarre prima il paracadute dal suo involucro. Si butta giù; la corda che ha legata dietro, strappa dal cono il fagotto di seta del paracadute, il quale segue dapprima come un cencio inerte l’uo-mo nella sua caduta precipitosa. Soltanto dopo una sessantina di metri di questa caduta il paracadute - se tutto funziona bene - si spalanca, diventa un ombrello che si ferma in aria e comincia a discendere lentamente. Se non c’è vento, tutto va bene. Se c’è vento, si può andare a finire dove vuol lui: anche in mezzo al nemico. C’è anche il caso di essere sbatacchiati fra gli alberi o sul tetto di una casa: o una volta a terra di esser trascinati e ammaccarsi le ossa attraverso i campi. Per questo appena si è a terra bisogna esser pronti a tagliar netto, con una piccola roncola che si ha appesa alla cintola, la corda che ci lega all’apparecchio salvatore. E' insomma un salvataggio fiorito di parecchie incognite e di svariate emozioni, principale fra esse, e inevitabile, quella di quei cinquanta o sessanta metri a precipizio, senza contare quel tal dubbio di pre-ludio, nel momento in cui si è seduti sul bordo della navicella e si guarda in giù. «E se non s’apre? » Non così è accaduto agli austriaci, che parecchie volte si son fracassati le costole arrivando a terra con l’ombrello chiuso attaccato alle medesime. I primi «salti» dei nostri cominciarono sulla Bainsizza. Uno emozionantissimo fu quello del tenente Cappellani, al quale, per cause ignote, si troncò in mezzo il pallone. Il tenente Cappellani si buttò giù che già il pallone, rapidamente sflosciatosi, cominciava a precipitare. Nella fretta del buttarsi il Cappellani rimase impigliato con una gamba, a testa in giù, nelle briglie della navicella. Con grandi sforzi riuscì a ritirarsi su, a liberare la gamba dall’intrico del sartiame, e si ributtò. Giunse a terra felicemente. Un altro nostro dracken si incendiò nel cielo del Korada. C’era sopra il tenente Paolo Calisse. Per lui il buttarsi da quei 600 metri con un paracadute in regola dovette essere uno scherzo piacevole. Aveva infatti dei precedenti. Da ragazzo per provare l’emozione del paracadute si cacciò giù da una finestra di casa sua con un ombrello aperto, e si ruppe una gamba. Aveva insomma la vocazione del paracadute. Questa volta non si ruppe nulla. Capitò in mezzo a un accampamento di bersaglieri che lo accolsero con grandi urrà e gli fecero gran festa. Nello scorso ottobre un dracken era in ascensione presso Isola Morosini. A bordo i tenenti Silenzi e Crostarosa. Da Punta Sdobba si fecero avanti quattro aeroplani austriaci, con evidenti cattive intenzioni. Invano un nostro cacciatore tentò di fermarli. Continuarono a puntare risolutamente al dracken. I due osservatori si prepararono. Gli aeroplani erano ora vicinissimi. Uno, il più ardito, d’un colore rossiccio - chi sa, forse quello che poi fu abbattuto sul Piave, e che era appunto montato da un sottufficiale specialista in abbattimenti di dracken - cominciò a mitragliare e lanciar razzi. «Sei pronto?» gridò Crostarosa al compagno. «Sono pronto». Le raffiche della mitragliatrice austriaca sibilavano attorno alla navicella. «Buttati!» Silenzi si buttò, scomparve sotto la navicella. Gli attacchi continuavano. A una lanciata di razzi il pallone cominciò a fumare. Crostarosa si sporse, vide il compagno che navigava sotto, tranquillo, col paracadute aperto. Impugnò le fibbie di corda della navicella e si gettò fuori. Si impigliò in una corda, fece una giravolta in aria, si sentì mancare il respiro. Poi, uno strappo alle spalle. Aprì gli occhi. Il pallone era ancora su, ma,si sflosciava. Si abbattè a un tratto guizzando fiamme e fumo. Intorno gli aeroplani austriaci volteggiavano, cercando di mitragliare i paracadute. Silenzi dal basso gli faceva grandi gesti. Lo udì gridare: - Evviva! - Poi scomparve fra gli alberi. Egli aprì la roncola e stette pronto. Appena a terra con un colpo netto tagliò la corda. Si trovò in piedi, e si mise a ridere. Ma poi si accorse che nella giravolta aveva perduto il binocolo. Allora cominciò a sacramentare, arrabbiatissimo. Sul Piave, nel novembre, un dracken stava facendo osservazioni di tiro. Era in aria da più di un'ora quando apparvero due apparecchi da caccia austriaci, filando rapidamente verso il pallone. C’erano a bordo due osservatori, Il capitano Landini e il tenente Vendittelli. Dal basso l'ufficiale di manovra al verricello cominciò subito a far scendere il pallone. Ma a 400 metri da terra, nell’imminenza dell’attacco, la discesa dovette essere fermata, per, lasciare un’altezza sufficiente all’apertura dei paracadute. I due apparecchi austriaci volteggiando attorno al dracken cominciarono a lanciare raffiche di mitragliatrici e razzi incendiari. Dopo pochi minuti un razzo colpì la fascia di attacco dell’involucro. Si sprigionò una piccola fiamma. Il capitano e il tenente erano già seduti sull'orlo della navicella, pronti al salto. «Il pallone brucia - disse il capitano - mi getto. Gettati anche tu.» Montò in ginocchio sul bordo, si diede una spinta in avanti con un piede e giù. Raccontò, poi, le sue impressioni. Per qualche secondo precipitò a capo fitto, vertiginosamente. Non provò nessun senso di asfissia. Conservò una strana lucidità di mente. Sentì subito un primo strappo, forse quello del paraca-dute che si staccava dall'involucro poi un secondo. E subito l’impressione di esser fermato nel vuoto. Guardo allora in alto. Il paracadute s’era aperto. Al di sopra il pallone, ancora fermo in aria bruciava lentamente. Si vide sul capo il tenente Vendittelli, che discendeva sulla sua verticale, col paracadute aperto, ma più velocemente di lui. Coi piedi toccava già il suo paracadute. Stava per nascere qualche brutto pasticcio. Per fortuna un colpo di vento li scansò. In quel momento il pallone divampò in una grande fiammata e precipitò fumigando. Una vampata ardente sfiorò per un istante i due ufficiali; li avvolse per poco un fiotto di fumo soffocante, poi si dileguò. I due ora discendevano placidamente, insieme, parlandosi. «Come va?» - «Bene!» - «Viva l'Italia!» - «Evviva!». Dal basso i soldati di manovra gridavano, frenetici. Il capitano Landini scese in una palude del Sile, rotolando sulla crosta di ghiaccio, senza farsi nulla. Il Vendittelli lo stesso. Anch’egli raccontò di non aver provato nessuna emozione. «La discesa non si avverte. Sembra di posare i piedi su qualche cosa di solido. Si conserva una calma perfetta». Ma il recordman del «salto» è il tenente Soster, che si è buttato giù due volte. Pare che una volta presaci l’abitudine, saltare giù da un migliaio di metri diventi una cosa da nulla; qualche cosa come i tuffi dal trampolino di uno stabilimento di bagni. La prima volta il tenente Soster si buttò giù il 15 novembre, a Spercenigo, fra Treviso e il Piave. Era su con un compagno, il tenente Barcelloni. Osservavano un aggiustamento di tiro su Zenson. Avevano quasi finito il loro lavoro, quand’ecco che da nord sono segnalati tre caccia nemici. Avanzano in gruppo, A duecento metri dal pallone uno si stacca e si fa addosso, deciso; si sentono già i primi crepitii della mitragliatrice. Dal basso una batteria antiaerea, le mitragliatrici del campo, un plotone di tiratori scelti bersagliano l’attaccante. Niente. Comincia a volteggiare in alto come un falco, sul pallone che è disceso a 450 metri, plana su esso, mitraglia. Soster ha a bordo una pistola automatica: con essa risponde alle raffiche dell'aeroplano, che a un tratto vira, s’allontana, scompare. L'attacco sembra fallito. Anche gli altri due aeroplani battono in ritirata. Soster e Barcelloni si abbracciano. Ma ecco il telefono annunzia: «il pallone si incendia. Buttatevi». Giù sul campo di manovra si vede stendere un lenzuolo bianco: il segnale. «Buttatevi!» ripete il telefono. I due osservatori guardano sopra il loro capo il gran ventre e i fianchi del dracken. Non vedono nulla, ma a un tratto ecco il pallone piegarsi in due e dalla strozzatura uscire una lingua di fuoco, un getto di fumo. Soster e Barcelloni sono seduti sull'orlo, con le gambe fuori. - Giù! - grida Soster al compagno. E gli dà una spinta. Barcelloni precipita. Soster dietro. I paracadute si aprono insieme; un soffio di vento li divide ... In mezzo a loro passa precipitando una massa ardente, il pallone; li avvolge di fumo e di faville. Un momento di soffocazione, poi intorno al viso la carezza dell’aria fresca e sotto la terra che lenta lenta savvicina. Scendono, leggeri come uccelli. Il 5 febbraio il tenente Soster, dinanzi a Ponte di Piave, era in ascensione sul nuovo pallone italiano. Ho già detto come gli austriaci, stupiti di veder quel nuovo animale curiosare sugli affari loro mandassero un loro caccia a fare la conoscenza. Era una bella e nuova selvaggina, e il cacciatore austriaco se ne invogliò. Ebbe fortuna. L'A.P., colpito, si incendiò, Soster, che era su solo, saltò, e arrivò a terra con la pistola automatica in pugno, deciso a difendersi in aria, se l’austriaco, come già era accaduto, se la fosse presa anche col paracadute. Altro buon saltatore, il tenente Baldassarri. Era in ascensione, ai primi di febbraio, sempre sul Piave. Un apparecchio, volando contro sole, si avvicinò, «picchiò» sul pallone a grande velocità, lanciò due razzi incendiari. Il pallone per un’abile manovra di spostamento dal basso non fu colpito. L’aeroplano cominciò allora a mitragliarlo roteandogli attorno. Le pallottole grandinavano nella navicella. Il Baldassarri si gettò nel vuoto. Prese terra in un prato. Il pallone era stato tirato giù: era pieno di buchi, ma senza bruciature. I buchi si rattoppano presto. Un’ora dopo il pallone ferito era su di nuovo, con a bordo il Baldassarri, che procuratosi un nuovo paracadute volle portare a termine la sua osservazione interrotta. A volte i dracken hanno avuto dei veri combattimenti, diretti o indiretti, con le batterie e con gli aeroplani nemici. Nell’azione della Bainsizza il tenente Mazza, nel cielo di Castelmonte, rimase in osservazione sotto un tremendo tiro, aggiustatissimo, di batterie antiaeree nemiche, che avvolgevano di scoppi il dracken. Il fuoco era così violento che dal campo volevano tirarlo giù. Egli si oppose. Finì la sua osservazione, poi rivolse le sue cure alle batterie nemiche, dirigendo contro esse un tiro che presto le mise a tacere. Allora, soddisfatto, discese. Il 23 dicembre un dracken era alzato sulle paludi del Basso Piave. Aveva a bordo il tenente Giovenale. Era una giornata grigia, fredda, nebbiosa. Dalla nebbia ecco a un tratto sbucare un aeroplano nemico. In fretta calano il pallone a 250 metri. L’austriaco plana e attacca. Non ha razzi, ma la mitragliatrice infuria. Rispondono da terra le mitragliatrici del campo. Giovenale non resta con le mani in mano. Imbraccia la pistola mitragliatrice e spara senza posa. Il velivolo austriaco batte in ritirata. Vittoria! Il dracken si rialza e continua il suo lavoro fiutando la nebbia e dondolandosi contento. Ma la maggior vittoria fu a Isola Morosini. Un idrovolante austriaco ci lasciò le penne. Fu nel maggio dell'anno scorso. L’idrovolante arrivava dal mare tagliando dritto la spiaggia. Avvistatolo si iniziò la discesa del dracken su cui era il tenente Pirangeli. L’idrovolante lanciò una scarica, ma svogliata-mente, e s'allontanò. Il dracken ricominciò a salire. Allora l’idrovolante ci ripensò e tornò indietro. L'ufficiale che era al verricello, il capitano Rota, corse a una mitragliatrice e aprì il fuoco. L'idrovolante volteggiò attorno al pallone lanciando raffiche. Gli rispose da bordo l’osservatore con la sua pistola, gli risposero le raffiche dei capitano Rota. L'idrovolante fu colpito. Si piegò prima su un'ala, diede di becco in basso, si rovesciò, precipitò. L’aviatore, nella giravolta, fu sbalzato fuori. Il pallone fu calato giù: era un pò sgonfio e bucato. Ferite leggere. Fu medicato, e il giorno dopo, guarito, era su di nuovo. Ma hanno un altro nemico, i buoni salsiccioni, più terribile che non i cannoni e gli aeroplani nemici, e contro il quale è difficile difendersi e avere il tempo di saltare; il fulmine. Nell’agosto del ‘17, una giornata densa di nubi temporalesche, un dracken era in osservazione dinanzi al Carso. L’aria era satura di elettricità. Gli stessi uomini di manovra al verricello ricevevano per il cavo scariche violentissime. A bordo era il tenente Aprea, romano. Un fulmine colpi il pallone, che rapidamente si incendiò. Quantunque stordito, l'Aprea si buttò fuori dalla navicella. Il paracadute si aprì. Ma il pallone in fiamme gli cadde sopra e lo travolse ... Un fulmine fu pure causa della morte del tenente Missana. Era salito con un tempo orribile, per osservare dei tiri d'artiglieria. Il pallone, colpito dalla scarica elettrica, cominciò a bruciare lentamente. Il Missana avrebbe avuto il tempo di buttarsi giù. Non lo potè. Il gas un po' inquinato dava poca forza ascensionale al pallone. Per diminuire il peso il tenente Missana era salito senza paracadute ... Più terribile di tutto fu la lotta che ebbe a sostenere col fuoco il tenente Enrico Cavalletti, in Albania. Una scintilla scoccata, a causa dell'elettricità diffusa nell'aria, tra due parti metalliche del circuito telefonico, appiccò il fuoco al gas defluente dalla manica di gonfiamento che dal ventre del pallone discende sulla navicella. Il Cavalletti con la roncola tagliò il pezzo di manica che ardeva. Invano. Il gas si riaccese al punto del taglio. Il Cavalletti continuò a tagliare, a tagliare, bruciandosi le mani, cercando di soffocare con le mani stesse straziate le fiamme che continuavano a fluire. Non aveva paracadute, non poteva buttarsi. Il telefono, fulminato, non funzionava più. Dal basso videro un pò di fumo, capirono, cominciarono a calare il pallone. Man mano che calava videro la lotta atroce. La manica si consumava bruciando, il fuoco si propagava già al corpo del pallone: anche la navicella bruciava. Si vide allora il Cavalletti strapparsi da dosso dei cenci fumanti, arrampicarsi per il sartiame al cerchio di sospensione e rimanervi attaccato, puntandosi sui gomiti, con le gambe che scomparivano fra le fiamme della navicella. Gli uomini al verricello giravano, giravano, ansando e rabbrividendo. Il pallone toccò terra. Fecero appena a tempo a tirar fuori il Cavalletti che tutto l’involucro divampò. Il Cavalletti aveva delle ustioni atroci, aveva le mollettiere e le scarpe carbonizzate. Credevano morisse. Guarì. - Cose che accadono a noi imboscati ... - mi diceva un ufficiale che era stato presente alla scena terribile. Le perdite di nostri dracken, inevitabili d’altronde, si possono calcolare, in tutta la guerra, a una diecina, e quasi tutte in questi ultimi mesi, in cui la lotta fra palloni e aeroplani si è fatta accanitissima. Da parte del nemico la cifra è assai più lunga. Basta ricordare che il solo tenente Ancillotto, premiato in questi giorni con medaglia d'oro, ne abbattè tre in una settimana.

AUTORE: GUELFO CIVININI

×

LA LETTURA - MAGGIO 918

IL CIELO IN GUERRA

La luna si è screditata nel mondo. Aveva fama di bonacciona, di mite, di fedele compagna di anime innamorate che al suo gelido biancore chiedevano ispirazioni sentimentali. Si lasciava sfruttare da poeti che spesso la rendevano complice dei loro brutti versi, e vilipendere da non pochi pittori che sulla tela la costringevano a fare orribili figure. Non era come il sole che qualche volta brucia troppo, né influiva sui terremoti o su altri spaventevoli cataclismi. Fra gli astri aveva dichiarata la sua neutralità, alla quale si atteneva scrupolosamente più di un qualunque Stato moderno. La guerra ha rovinato la bella fama della pacifica luna e questa facciona allegra, nonostante le sue smorfie buffe, ha dovuto mettersi al servizio della grande tragedia mondiale, che per forza le ha affidato l’antipatico compito di funzionare da comune riflettore sulle tenebre degli opposti campi. Pochi la cercano e molti la maledicono: la sua ascesa nel cielo è seguita con trepidazione e la sua calata nel buio e la sua confusione nei primi bagliori dell’alba danno un profondo senso di sollievo alle popolazioni civili scoperte, come corpi nudi agli occhi torvi del nemico. I barbari hanno voluto che anche la bonaria luna avesse la sua parte di responsabilità nel manomettere le leggi della guerra a danno di città indifese, rendendola una correa coatta di tanti delitti, obbligandola ad illuminare le case, le chiese, i monumenti sui quali precipiteranno le bombe. Sono gli austro-tedeschi che hanno con prepotenza violata la sua neutralità e nel cielo la luna somiglia un pò al Belgio. Ma ad un Belgio che non ha mezzi eroici per opporsi al tentativo infame: che deve ogni mese tener di mano al banditismo dell’aria, e che non ha neppure modo di piangere sul martirio di Padova, di Treviso, di Venezia, di Mestre, di Castelfranco, sui cadaveri insanguinati di vittime innocenti. Il bianco faccione è costretto a ridere sempre, come se schernisse la sua odiosa complicità. LA SUPERIORITÀ DEGLI ITALIANI Noi italiani abbiamo rimorsi meno gravi, perché della luna ci siamo serviti, e ci serviamo, per imprese belliche, e non per gesta delittuose. Perciò il primo elemento di superiorità della nostra aviazione su quella avversaria, è un valore morale. Le incursioni aeree che noi facciamo sono tutte guerrescamente lecite e se qualche volta - rarissime volte - abbiamo dovuto scegliere obiettivi non militari, ciò abbiamo fatto per rappresaglia, per costringere il nemico a desistere da metodici eccidi e da sistematiche devastazioni di opere d’arte. Gli austro-tedeschi, invece, ad ogni nostra azione dal cielo, condotta con lealtà di belligeranti, hanno risposto con una aggressione brutale, vendicandosi di una sconfitta subita sul campo, con un delitto, travolgendo nella lotta chi non vi partecipa, disonorandosi ancora di più, come se la raccolta di crimini di ogni genere messi insieme dall’agosto 1914 non bastasse a consolidare nella storia la loro vergogna. L’aiuto della Germania ha servito ad aumentare, anche nell’aviazione, la ferocia degli austriaci che, secondo il parere di piloti tedeschi da noi catturati alla fine di dicembre, hanno scarsissimo valore nella guerra del cielo, e sono agli italiani molto inferiori per numero di apparecchi, per abilità, per audacia. «Senza di noi - diceva un ufficiale aviatore germanico - non avrebbero nulla concluso e la vostra superiorità di mezzi e di propositi sarebbe stata schiacciante. La Germania, invece, vuole mettersi alla pari dell’Intesa e lavora febbrilmente a costruire aeroplani». L’AIUTO GERMANICO Le notizie fornite da questo ufficiale, che per molti giorni si era chiuso in un impenetrabile mutismo, ma che adagio adagio ha principiato col dire qualche parola e ha, poi, finito col dirne moltissime; le notizie, ripeto, rispondono al vero. Fino a poco tempo addietro le condizioni dell’aviazione austriaca non erano troppo floride né per qualità di apparecchi né per ardimento e perizia di aviatori. Le sue perdite erano assai maggiori delle nostre e i suoi campi, continuamente battuti da aeroplani italiani e quindi obbligati a rimanere molto dietro alle linee, male si prestavano alle spedizioni rapide ed efficaci. Come testimonianza delle frequenti perdite subite dagli austriaci, ricordo qui la lettera trovata addosso al tenente Alexis Celle della 23^ compagnia aviatori, precipitato nelle linee italiane, vinto da un nostro cacciatore, il 20 luglio. Nella lettera al fratello, principiata e non chiusa, ad un certo punto, il pilota nemico scriveva: «Ed ora aggiungi anche il capitano di cavalleria Ventour ed il sottotenente Schetting. Hanno trovato anch’essi morte gloriosa in combattimento aereo. Non hai idea quanti ne muoiano ogni giorno. La statistica dà 3 ufficiali e mezzo quotidianamente morti nella aviazione». FEBBRILE PREPARAZIONE I dolorosi e non ancora spiegati avvenimenti militari dello scorso ottobre, mentre distruggevano l’opera vittoriosa di due anni e mezzo di eroismi e di sacrifici, venivano a sollevare l’Austria anche nel campo dell’aeronautica, riducendo la nostra assoluta superiorità, sia per aver dovuto noi stessi incendiare molti apparecchi il cui trasporto fu reso impossibile dalla improvvisa ritirata, sia perché lasciavamo al nemico i nostri eccellenti campi così vicini alla nuova linea di battaglia e a centri italiani importantissimi delle retrovie, sia perché la Germania, aiutando la sua alleata, portava gran numero di macchine e di piloti. Oggi le forze sembrano equilibrarsi. Per avere la superiorità è indispensabile intensificare la fabbrica-zione degli apparecchi da caccia e da bombardamento, e la creazione dei piloti. É più difficile e più lungo formare un buon aviatore che costruire un buon aeroplano, ma se è necessario affrettarci noi ci affretteremo, e per gli uomini e per le macchine. Gli imperi centrali che temono la superiorità, in un prossimo avvenire, nella guerra aerea dell’Intesa, allo scopo di poterla fronteggiare, stanno compiendo vasti preparativi, e in Germania molti stabilimenti hanno cambiato il loro genere di lavoro per darsi alla fabbricazione di aeroplani. Forse ai tedeschi fa difetto il personale per svolgere un ampio programma aviatorio, ma non mancano né la volontà, né i materiali per cercare di mettersi a nostro livello, e sarebbe colpa imperdonabile se l’Intesa, che di nulla scarseggia per una insuperabile organizzazione della guerra nel cielo, non dimostrasse tutta la propria tenacità nel volere raggiungere i suoi scopi. Noi abbiamo bisogno di migliaia di apparecchi da bombardamento, da ricognizione e da caccia che devono rappresentare il nostro patrimonio di battaglia e le nostre larghe riserve. Ogni aeroplano ne richiede almeno due di riserva e per tutti e tre sono necessari innumerevoli pezzi di ricambio. Si tratta di macchine affidate all’immensità degli abissi, minacciate non soltanto dai rischi del combattimento, ma da una serie di incidenti non di rado tragici, dovuti a tante cause, alcune cono-sciute, altre ignorate, perché nuove. La potenza degli aeroplani è una potenza di fragilità e di imprevi-sto. Per esser forti, dunque, bisogna essere fortissimi, pronti a svelte sostituzioni di piloti e di velivoli. MINACCIA IMMUTABILE Se i progressi compiuti dall’aviazione in un tempo relativamente breve appaiono prodigiosi e ci fanno ripensare con meraviglia ai disperati tentativi per battere le vie del cielo, l’aeroplano è sempre una macchina in balìa ai capricci dell’infinito, sorretta nel vuoto da tenui resistenze che facilmente possono cedere. Oggi, è vero, noi ricordiamo con ingiusto sorriso la vittoria aerea, per quell’epoca quasi inverosimile. di Enrico Farman che nel gennaio del 1908 vinse il premio di 50.000 franchi istituito per chi avesse coperto il circuito di un chilometro, dai signori Deutsch e Archdeacon. Fu, allora, un avvenimento strepitoso. E pure l’audacissimo Farman fece meno di un principiante di oggigiorno, perché non si alzò di più di dieci metri da terra, rimanendo per aria neppure un minuto e ventotto secondi, volando a velocità non superiore a 40 chilometri all’ora. Queste cifre, ripeto, ci inducono a sorridere, abituati come siamo ai records di 8.000 metri di altezza, alle pazze velocità che ogni tanto si superano, ai voli di molte ore consecutive fatti anche in condizioni atmosferiche avverse. Ma nonostante questo progredire precipitoso intorno alla snellezza e alla rapidità di un velivolo, le svelte flottiglie che navigano le vie del cielo rimangono soggette, qualunque siano la loro forza e la loro mole, alla minaccia di tante sciagure, delle quali non sempre la cagione è afferrabile, perché non di rado col mistero di una tomba cala e si chiude il segreto della catastrofe. Non sono mancati - e, forse, non mancano, perché l’imbecillità non é cosa che corra il rischio di essere razionata e tesserata - i denigratori dei servigi resi dalla aeronautica. Costoro hanno giudicato imboscati molti aviatori e precisamente quelli che non avevano occasione di volare su territorio nemico, essendo adibiti alla difesa delle città interne. Anche in questo caso il severo giudizio è ingiusto, perché il cielo non ha sicure retrovie e un pilota per cadere e fracassarsi non ha bisogno dell’intervento austriaco o germanico. La rottura di un tirante, il motore che non si riaccende, una causa non ancora elencata nelle statistiche, purtroppo assai ricche di dati, di tante disgrazie, bastano a travolgere la macchina, a schiacciarla contro la terra. Il povero Olivari, uno dei nostri migliori «assi» che aveva numerose volte vinto il nemico con superbi combattimenti, che era uno dei più esperti guidatori di Nieuport, cadde sul proprio campo precipitando ad un tratto da 80 metri di altezza inghiottito dal vuoto, non si sa per quale forza improvvisa.Il cielo è ancora un labirinto di tranelli, è un mistero che spesso uccide fuori della battaglia. STATISTICHE DI GLORIA Nella guerra moderna l’aviazione vi è rappresentata come uno dei coefficienti di maggior valore. sia per quanto essa osserva nei movimenti e nei preparativi dell’avversario, portando e proprie indagini al di là di altissime montagne e fornendo così dati preziosi per la difesa o per l’offesa, sia per i suoi violenti bombardamenti che scompigliano colonne nemiche in marcia, battono nodi stradali, centri ferroviari, squassano baraccamenti di truppa e magazzini.Per avere un’idea approssimativa di come l’aeronautica italiana cooperi alle aspre e gloriose gesta dell’esercito, bisogna rivedere i periodi della sua più recente attività: durante l’azione vittoriosa dell’agosto scorso, nelle dolorosissime giornate della nostra ritirata, nella nuova fase della lotta sulla salda linea del Piave, nei quotidiani duelli e nelle sempre più audaci incursioni. Nella nostra offensiva dell’agosto, per la prima volta l’aviazione concorse con azioni di grande stile, dopo una lunga e ardita fase preparatoria, durante la quale i frequenti bombardamenti dall’alto - furo-no gettate circa cento tonnellate di esplosivo - portarono lo scompiglio nelle retrovie e fra i rincalzi degli austriaci, mentre l’instancabile operosità dei nostri osservatori svelava nuove postazioni di artiglierie nemiche, e l’audace combattività dei caccia impediva agli aviatori avversari di spingersi troppo a curiosare fra le nostre linee. Il giorno 17, aperto il tremendo fuoco delle artiglierie italiane da Tolmino al mare, i Caproni e le altre grandi macchine da bombardamento completano l’opera devastatrice dei cannoni recandosi a battere i punti defilati o fuori di raggio di tiro, squarciando ricoveri nemici e mitragliando reggimenti austriaci di rincalzo, arditamente abbassandosi a 200 o 300 metri dal suolo. L’azione dei velivoli fu intensificata, allorché le nostre fanterie si lanciarono all’assalto, e in quel momento gli aeroplani divennero le alte staffette delle masse attaccanti le trincee avversarie. Bombardarono e mitragliarono il nemico, passandogli sì da vicino che molti prigionieri ancora terrorizzati da questa folla di giganteschi avvoltoi, dicevano: «Erano tanto bassi che il vento delle eliche ci strappava di capo il berretto ...». I bollettini ufficiali registrarono qualche volta stormi di 200/300 macchine volanti sul cielo della batta-glia! In 15 giorni, nei vari periodi della vasta lotta, i nostri rovesciarono sugli austriaci 143.980 kg di proiettili ad alto esplosivo, spararono sulle truppe 57.700 colpi di mitragliatrice e abbatterono 17 apparecchi, perdendone soltanto sette. Nella fase di assestamento successa alla nostra vittoria, e cioè nel mese di settembre, l’aeronautica italiana continuò a dare quotidiane prove di instancabile attività, spingendosi in pericolosissime ricognizioni - il cui valore non può sempre essere registrato dalle statistiche - perseverando nel bombardare accampamenti e trinceramenti austriaci, vincendo altri sei velivoli nemici nello spazio di una settimana. Fu, appunto, in quei giorni che alcuni dei nostri più noti cacciatori accrebbero il numero dei loro vittoriosi combattimenti e fu nel mese di settembre che si ebbero le fortunate e ripetute incursioni su Pola. TONNELLATE DI BOMBE I Caproni fecero miracoli e la condotta della battaglia ingaggiata da queste enormi fortezze vaganti in quel fortunato periodo per le armi italiane, andò acquistando nuove forme. Il povero Salomone - un al-tro grande lutto insanabile - aveva iniziato, con un indimenticabile gesto eroico, una serie ininterrotta di bellissime imprese. Ercole - un altro capronista decorato di medaglia d’oro - era stato il primo a prendere parte con il povero capitano Bailo ad un’azione di bombardamento in grande stile, eseguita da Caproni. Da quest’epoca gli episodi più non si contano e le vaste battaglie assumono nel cielo l’ordine di battaglie navali. Vi sono apparecchi che tornano per miracolo ai loro hangars forati da 50 o anche da 100 proiettili, con a bordo feriti gravi che non si sono arresi, o con una salma gloriosa pietosamente ricondotta dai superstiti. Ve ne sono che non tornano ... L’attività di tutti i tipi di velivoli da bombardamento, nel periodo maggio-settembre, è particolarmente illustrata da cifre molto significative. Durante il mese di maggio, avendo per obbiettivo i servizi ferro-viari di Opicina, Prosecco, S.Lucia di Tolmino, il Vallone di Chiapovano, il rovescio dell’Hermada, l’altopiano della Bainsizza, 147 velivoli con 16 bombardamenti di giorno e 9 di notte, tempestarono il nemico con 33.769 kg di esplosivo. Nel giugno gli stessi bersagli ed altri militarmente importanti, co-me i nodi ferroviarì di Dornberg, di Reifemberg, e il campo di aviazione di Prosecco, furono ricoperti da 20.366 kg di bombe e nel luglio, nonostante il tempo sfavorevole, 83 apparecchi italiani fulminaro-no con 23.150 kg di esplosivo le basi militari del nemico. Ma le cifre più alte sono raggiunte in ago-sto, allorché l’impetuosa marcia dei nostri fanti si spinge sulla Bainsizza, e si iniziano le memorabili incursioni su Pola. In questo mese i velivoli che prendono parte alle ampie azioni sono 619, con 35 bombardamenti di giorno e 3 di notte e con 137.717 kg di esplosivo. Nel settembre l’attività aerea si mantiene rigogliosa e 338 apparecchi italiani lanciano su Pola, Ternova, Grahovo, rovescio dell’Hermada, Chiapovano, Sistiana, Prosecco, Voinscizza, Berge, 76.235 kg di proiettili, operando 21 volte di giorno e 7 di notte. Gli eroici equipaggi dei nostri dirigibili con grande efficacia concorrono, dal maggio al settembre, alle imprese aviatorie sui centri militari austriaci, e vi prendono bella parte con 16 macchine che in 22 bombardamenti lanciano 15.600 kg di esplosivo, dal Vallone di Chiapovano al rovescio dell’Hermada. Imprese che non sono una novità nelle superbe tradizioni dei dirigibili italiani. Fu, infatti, una di queste grandi navi aeree che il 27 maggio 1915 bombardò il nodo ferroviario di Lubiana e il giorno seguente la centrale elettrica di Rosego, e fu un altro dirigibile che audacemente prendendo la via di Pola in una notte del febbraio 1917, andò a sfidare nei suoi ripari la flotta austria-ca, aprendo la strada - nel senso di saggiare le difese nemiche - alle magnifiche incursioni dei nostri velivoli sulla formidabile piazzaforte dell’Austria. DALL’ISONZO AL PIAVE Nel mese di ottobre si ha la memoranda spedizione di Cattaro, ma si ha anche l’inaspettata e troppo amara sconfitta che ci strappa alle terre conquistate con tanto martirio, e paurosamente spalanca le porte di casa. L’anima non può sostare su questa rimembranza ... Quello che l’aviazione aveva fatto nei giorni prosperi, quando il nostro esercito si tendeva vittorioso ... oltre le montagne del medio Isonzo e al di là del fosco Carso, ha ripetuto con la stessa tenace baldanza, con la stessa fede e serenità incrollabili, nei momenti più tragici della ritirata e in quelli, animati di sublime spirito combattivo, ma gravi di minaccia, dalle Giudicarie agli estremi lembi pantanosi del Piave. È storia recente ampiamente illustrata e risaputa. Non è male, però, segnarne ancora le fasi in una breve sintesi, per rinfrescare la memoria a chi spesso, o per ignoranza, o per malafede, dimentica le magnifiche gesta dei nostri aviatori. In un primo momento del disastro di Caporetto i nostri velivoli dovevano fronteggiare instancabilmen-te gli apparecchi nemici, rafforzati dall’aiuto germanico, e tentare di rallentare la marcia delle folte masse avversarie che avanzavano dalle valli. In un solo giorno, il 25 ottobre, un gruppo di cacciatori - quello nel quale sono il tenente colonnello Piccio, il maggiore Baracca e il capitano Ruffo - eseguì 85 voli, sostenne 23 combattimenti e abbattè 7 apparecchi. Gli episodi di valore e di abilità, non si conta-no più e sfuggono a una elencazione. In quei giorni terribili ogni pilota e ogni osservatore sono uomini di coraggio indefinibile: ogni loro volo è un atto di prodezza. Ricognizioni, cacce, bombardamenti sono tutti fatti che si accostano al miracolo, che rivelano un eguale spirito di sacrificio e di noncuranza del pericolo in chi li compie. Il 26 ottobre, volando sulla conca di Caporetto, il tenente osservatore Giuseppe Bertolotti dà ordine al pilota di abbassarsi più che può sulle truppe nemiche. Si abbassano e la mitragliatrice falcia le orde, esaurendo velocemente i nastri e serbando pochi colpi per difendersi da un’aggressione. L’impresa termina, perché le munizioni finiscono e l’aeroplano ripiglia la strada di Udine, recando a bordo un moribondo: il tenente Bertolotti. Egli si spense in un ospedale della amatissima città friulana dopo tre ore di agonia serena e cosciente ... In un secondo momento, immediatamente seguito al primo, gli aviatori cercano di salvare più che possono, a qualunque costo, dei loro campi. Il tenente Veronesi e il sergente Fornaciari all’ultimo momento partono da Idersko vicino a Caporetto: Fornaciari può raggiungere il centro della nuova adunata, ma il povero Veronesi si sfracella contro le rocce dell’Isonzo. Da tutti i campi gli apparecchi che hanno un pilota partono sotto una pioggia torrenziale, nel buio, e in ogni campo rimangono, nonostante la rumorosa vicinanza di mitraglieri austriaci, uomini impavidi a distruggere i velivoli intrasportabili, a dar fuoco a depositi di benzina e ad hang.ars. A Casarsa i nostri dirigibilisti si bruciano le mani a spengere un incendio scoppiato non si sa come, e che dovranno più tardi riaccendere, per non lasciare al nemico un abbondante deposito di benzina. Di 50.000 kg riescono a sottrarne alle fiamme più di 30.000 riempiendo i serbatoi di tutti i camions che passano sulla strada ... Da questo momento il secondo e il terzo periodo della lotta, dalla ritirata alla ripresa della battaglia, si confondono per una medesima meravigliosa e ininterrotta attività nella quale gareggiano di slancio tutti i reparti della nostra aeronautica: dai cacciatori ai dirigibili. Dal 25 ottobre al 25 novembre si registrano 44 bombardamenti con partecipazione di 234 apparecchi, che si spingono fino a 70 km dalle nostre linee, gettando sul nemico circa 48 tonnellate di esplosivo. Otto «Caproni» non rientrano, non se ne hanno notizie. Fra gli osservatori è anche il principe di Trabia. SENZA RIPOSO Nello stesso periodo di tempo le aeronavi eseguiscono 14 bombardamenti e lanciano circa 15 tonnella-te di proiettili sui ponti di Madrisio, di Pinzano, di Latisana, di Motta di Livenza, che gli austro-tede-schi hanno riattati. Il comandante e l’equipaggio di un dirigibile che non ha ancora subite le prove del collaudo si arrischiano a volare sul nemico ... Durante la medesima epoca sono abbattuti 53 apparec-chi avversari, dei quali 19 cadono nelle nostre linee, senza contare tutti quelli la cui fine non fu potuta subito accertare ... Il 13 novembre il tenente colonnello Santi, che per tre volte si abbassa sull’ansa di Zenson, alla quarta è colpito da una fucilata e agonizza, Il 4 dicembre un messaggio nemico ci avverte che un nostro velivolo, partito in ricognizione il 29 novembre con un sergente e un tenente, si era cala-to al disotto di 100 metri e che la mitragliatrice aveva sparato sempre. Fino alla gloriosa catastrofe ... Raggiunta e rafforzata la linea del Piave, l’aviazione non conosce più lunghe pause di riposo: un tem-po quasi primaverile favorisce le imprese aeree. Dal cielo le potenti unità accompagnano, sostengono, qualche volta precedono o intercalano le furibonde battaglie della terra: dall’altipiano di Asiago al Grappa. Ai nostri si aggiungono i celebri cacciatori inglesi, che nell’ultima settimana del mese di dicembre abbattono due apparecchi al giorno, e belle ricognizioni di piloti francesi. Undici macchine nemiche in una volta sola lasciano le penne in una disastrosa impresa. La ferocia teutonica si vendica trucidando donne e fanciulle a Padova ... Non diamo tregua all’avversario e con ammirabile tenacità bombardiamo i campi di Aviano, di San Felice, di Comina. Gli austro-tedeschi diventano ancor più crudeli e rabbiosamente tornano ad accanirsi su Mestre, su Treviso, su Padova, contro gente pacifica e tesori d’arte sventrando ospedali. Noi, invece, andiamo a gettar fuoco sul nodo stradale Caldonazzo-Levico - Salomone, ritornando, vi lascia la vita - e riandiamo verso gli hangars nemici, guidati, la notte, dalle strisce luminose stese sui campi avversari per agevolare il ritorno dei propri aviatori: incendiamo baracche e apparecchi ... E Padova e Treviso pagano ancora, con il sangue della loro gente e la bellezza delle loro chiese. Così rispondono, gli austro-tedeschi, alla protesta del Papa! CACCIA AL DRAGO La nuova fase della guerra italiana, trasportata sul Piave, ha dato rinomanza ai dracken, a questi immobili palloni che non tutti fino ad oggi avevano giustamente apprezzati. La lotta in pianura ha messo in evidenza il loro naturale valore di mezzi di osservazione. In località nelle quali il terreno scoperto, nudo, privo di rilievi, non si adatta ad apprestare osservatori fissi, soltanto gli occhi del dracken sono capaci di scrutare le posizioni. dell’avversario, indagando fra le trincee e i rovesci delle linee, sorvegliando il movimento della retrovia. Perciò mai come oggi questi rotondi e bislunghi palloni, che somigliano a qualche animale preistorico non ben precisato, sono molesti e nello stesso tempo utilissimi, al nemico e a noi. Una volta i dracken vivevano assai pacificamente e con rara frequenza venivano assaliti da aeroplani. I tempi sono cambiati e la pianura raccoglie intorno al gonfiore tante ire. Noi abbiamo degli specialisti per la caccia at drago e quattro ne sono caduti, fra il novembre e il dicembre, sotto i colpi delle nostre mitragliatrici. Un osservatore di dracken ebbe una delle più grandi soddisfazioni che possa avere un uomo nella disgrazia, cagionatagli dall’altrui vio-lenza vittoriosa: quella cioè di vedersi vendicato sul posto. É un fatto veramente curioso. Il dracken, a cui stava sospeso l’osservatore, venne assalito da un aeroplano e incendiato. L’osservatore dové buttarsi di sotto. affidandosi al regolare funzionamento del paracadute, ma appena finiti i 100 metri di-precipitazione e cominciando a scendere lentamente verso terra vide il suo aggressore precipitare dall’alto. Un cacciatore inglese lo aveva attaccato e abbattuto, e la, macchina nemica precedeva nel viaggio di discesa l’osservatore del dracken. Il 1917 si chiude con cifre molto confortanti per noi. Dal 1 ottobre al 31 dicembre gli apparecchi avversari abbattuti sono 102 di fronte a perdite nostre assai minori: appena 32 velivoli. Anche il mese di gennaio, benché per 16 giorni le condizioni atmosferiche non abbiano permesso di volare, ha cifre molto confortanti per noi, perché gli aeroplani nemici caduti nelle nostre linee sono sette, e 2 quelli precipitati nelle linee avversarie. Riassumendo, dall’inizio della campagna al 31 gennaio 1918, i velivoli avversari abbattuti sono 288, dei quali 219 finiti su territorio loro e 64 sul nostro. L’aviazione italiana non perdè che 77 apparecchi. Anche nel mese di gennaio, nonostante - ripeto - il tempo avverso, l’attività delle nostre macchine da bombardamento è stata assai notevole. A undici azioni - sei di notte e cinque di giorno - hanno partecipato 41 aeroplani, lanciando 9.030 kg di bombe. Non abbiamo avuto perdite. Ma cifre veramente belle sono quelle fornite dalla statistica che registra il numero dei bombardamenti eseguiti dal 1° maggio 1917 al 31 gennaio 1918. In questo periodo si contano 177 azioni, delle quali 138 di giorno e 39 di notte, con la partecipazione di 1688 velivoli e con getto di 380 tonnellate di esplosivo. CONFRONTI Nei mesi di febbraio, di marzo, di aprile il bilancio della aeronautica italiana si fa sempre più ricco di cifre che sono il succoso commento di grandi gesta. Mentre gli austro-tedeschi, specialmente nel febbraio e nel marzo, gareggiano in crudeltà, attaccando Padova con nuova ostinazione, rovesciando trecento bombe sulla sacra bellezza di Venezia, trucidando donne e fanciulli nella pacifica e ridente Napoli e vantandosi dei loro delitti con grossolanità tutta teutonica; noi, invece - con gli aviatori inglesi e francesi - continuiamo a far la guerra da combattenti e non da banditi. Sui campi nemici torniamo senza posa di giorno e di notte per distruggere i covi delle macchine austro-tedesche. Il sole non ci spaventa e anche in piena luce, volando a quote bassissime, apparecchi da bombardamento e idrovolanti italiani affrontano il fuoco delle mitragliatrici e dei fucili. L’avversario non ci somiglia: esso ama le tenebre, come i gufi e come i ladri. Sa che il giorno non gli è favorevole e che se osa mostrarsi quando il buio non lo protegge nei suoi crimini, difficilmente torna a casa incolume. Non passano, infatti, 24 ore che cacciatori italiani, o inglesi, o francesi sul fronte no-stro, non schiaccino la brutta testa di qualche aquila nemica meno delle altre timorosa di attraversare le proprie linee illuminata dalla chiarità del sole. Noi, invece, di pieno giorno abbiamo bombardato la stazione di Innsbruck compiendo un viaggio, fra l’andata ed il ritorno, di circa 400 km seriamente ostacolati dal passaggio delle Alpi! Agli aviatori austro-tedeschi mai diamo tregua. Anche se essi tacciono e non dan segno di vita - sopra tutto di viltà - come belve accovacciate che lungamente meditino, chiuse nel loro nascondiglio, un bel carnaio, i nostri bombardieri del cielo non riposano. Con la luna o al solo lume delle stelle, vanno sui campi avversari, sui nodi stradali, sui centri ferroviari, sugli accampamenti, e vi rovesciano sopra tonnellate di bombe. Spesso, come dicevo, vi tornano all’alba sfidando ogni pericolo, compiendo rischiosissimi raids di parecchie ore, tormentando l’apparente calma del nemico. I «Caproni» non hanno posa. Qualcuno tornando al suo hangar, dopo aver coperto di fuoco le tane austro-tedesche tragicamente si sfracella. Ma che significa ciò? La missione è troppo bella e il fervore è troppo schietto, perché una sciagura o un grande rammarico attenuino l’eroica operosità. Ho parlato della nostra superiorità e vi insisto. Io non so quante macchine posseggano gli avversari e quante ne abbiamo noi. Non importa. Io non fo questione di numero: io fo questione di superiorità morale. Essa è indiscutibile. Il nemico trae il proprio coraggio dalla organizzazione, o meglio, dalla associazione: gli fa invece, difetto l’individuo ardimentoso. In altri termini, lo spirito di cooperativismo tedesco fa risentire la sua influenza anche nelle gesta audaci: un uomo solo, abbandonato a sè stesso, - parlo dei nemici - non vale quanto uno dei nostri. Nell’aviazione la caccia è lucida riprova di quanto affermo: Baracca, Piccio, Ruffo - oggi giustamente decorati di medaglia d’oro al valore militare -, uno stuolo sempre in aumento di combattenti dell’aria improvvisati, una falange di francesi e di inglesi non trovano i corrispondenti tipi né in Germania né in Austria. Noi abbiamo l’iniziativa del coraggio anche nella solitudine, mentre il nemico ha l’ardimento sociale. Da solo non saprebbe neppur essere feroce, cosa che tanto bene sa fare in compagnia! E pure se voi parlate con qualche imbecille - e l’occasione non è rara di incontrarne - vi sentite dire con un sospiro indefinibile: - Gli aviatori nemici osano molto ... sono sempre a Padova, a Venezia, a Vicenza ... Noi, invece … Questa gente meschina, pur di non rinunciare ad una sciocchissima osservazione, non tiene conto di un modestissimo particolare: la geografia. Non comprende, o non vuol comprendere, che se le nostre città importanti si trovano distanti dai 30 ai 50 km appena, e senza ostacoli di alture, dai campi avversari, quelle nemiche sono lontane da noi qualche centinaio di chilometri, protette da alte catene di montagne. La stessa gente finge di non ricordare le magnifiche imprese della nostra aviazione, e ogni velivolo austriaco abbattuto, ogni campo incendiato, ogni centro militare tempestato di proiettili, la lasciano indifferente. E con tenacità irritante ripete: - Ma essi vanno a Padova, a Venezia, a Napoli … E Innsbruck? Oh, per gli imbecilli non ha importanza. Che cosa sono le Alpi? Dei monti. E basta. Ma dobbiamo davvero, seguendo l’esempio del nemico, far la guerra alle popolazioni civili, alle chiese, agli ospe-dali, alle città innocue, curare insomma - ed è, forse, l’unica cura - la ferocia austro-tedesca con altrettanta ferocia? Ebbene: seguiamo l’esempio, che ha già molti anni di vita e che il nostro sentimentalismo non ci fece seguire. Bombardiamo anche noi i paesi lontani dal fronte, trucidiamo donne e bambini, ammazziamo feriti e malati. Allora vedrete che nonostante le montagne, la lunghezza del volo, i rischi enormi del viaggio, arriveremo dove vorremo, sempre. Ma udrete ancora la solita gente dire: - Sì, va bene, però, gli austro-tedeschi ...

AUTORE: BACCIO BACCI

×

LA LETTURA - LUGLIO 918

LA SQUADRIGLIA ESULE

Le tiravano col 381, l’assalivano di notte gli idrovolanti austriaci ed i proiettili le cadevano intorno ai ricoveri, ogni sua missione si iniziava sotto il controllo dei semafori istriani ed a Trieste udivano i suoi motori mentre si scaldavano, non di un’ora sola veramente tranquilla, pativa la malaria e la bora, eppure la squadriglia di Grado, la squadriglia esule, ripensa alla sua isoletta con nostalgia cocente. Lassù era in cospetto della storia, operava in vista dell’Italia nuova che avanzava rombando e sanguinando. Dalle sue villette, dai suoi ricoveri distingueva le difese dell’Hermada, le rocca di Duino, il castello di Miramare, le particolarità edilizie di Prosecco, Trieste, Pirano, Punta Salvore ... Era così prossima alla costa istriana da consentire alla proprietaria del villino in cui risiedevano gli ufficiali, di accorgersi col binocolo, stando a Prosecco, che il suo giardino di Grado era tenuto con cura. (Lo scrisse in una lettera mandata traverso la Svizzera ad una sua conoscente di Grado). Forse a Grado il senso della guerra risultava più drammatico che altrove perché vi si avvicendavano, in improvvisi contrasti, episodi di vita bellica e di vita civile, per cui non era mai possibile ai combat-tenti della squadriglia entrare pienamente in quello stato di oblio, di indurimento e di allucinazione sublimi che si riceve dalla trincea dove non si vede, non si vive e non si muore che la guerra, ed ogni aspetto della esistenza borghese appare un ricordo remoto ed inverosimile. A Grado gli aviatori erano coinvolti da vicende di guerra non soltanto in ore di volo, ma anche in quelle di «riposo» con attacchi aerei e bombardamenti dalla costa nemica: così la loro tensione risulta-va incessante, la loro mobilitazione spirituale si manteneva rigorosa, la loro elevatezza morale - fatta di serene rinunce supreme - perfetta. Ogni loro ora di vita conteneva un suo intenso valore. Il ritrovarsi vivi alla fine di ciascun giorno e di ciascun rischio era la constatazione di una vittoria contro la sorte. A traverso questo eccezionale stato d’animo venivano osservati con ingenua meraviglia - che negli aviatori si rinnovava dopo i loro bombardamenti diurni e notturni, le ricognizioni fotografiche, le direzioni dei tiri d’artiglieria, gli attacchi a navi nemiche - i più comuni episodi borghesi: l’apparizione nell’ora dei bagni e della passeggiata, sul lungomare adorno di edifici lussuosi per la stagione balneare d’altri tempi, di alcune signore e signorine valorose nella loro ostinata permanenza a Grado, encomia-bili, fra tante ansie, nel conservare ancora all’ambiente rosicchiato dalle bombe una estrema parvenza di eleganza mondana; il concerto nei giorni festivi dei marinai in piazza e le rappresentazioni dei filodrammatici indigeni in un teatrino: l’intermezzo della Cavalleria e la parodia di Francesca da Rimini mentre talvolta a poche miglia i motoscafi armati scambiavano cannonate con torpediniere austriache ed aerei nostri provocavano nel cielo di Trieste moltitudini di scoppi; cori di bambini poveri, raccolti in un ben munito refettorio dalla filantropia della Marina, con accompagnamento di artiglieria oltre Isonzo ... Grado era cara alla squadriglia: nei suoi marmi antichi parlava di Roma, e di Venezia parlava nel gro-viglio delle sue calli, delle sue piazzette, nello stile della sua torre, nel dialetto, nei costumi dei suoi popolani. Le fasi lunari ne capovolgevano le abitudini. Sonnecchiava di giorno e vegliava di notte. Lungo le calli s’udiva il sommesso chiacchierio d’attesa di gruppetti invisibili nella penombra traversata da obliqui raggi lunari. Gli aviatori trascorrevano le notti parte nei sotterranei, durante le incursioni, e parte in volo nell’esecuzione dell’immediata rappresaglia. Spesso le lettere degli aviatori recavano frasi come queste: «non ti ho risposto subito causa la luna», oppure, «appena sarà finita la luna verrò in licenza», «Aspetto che finisca la luna per andare a Udine a provarmi la divisa nuova». Per chi si abituava, la veglia non era assoluta: taluni tesoreggiavano col riposo le mezz’ore d’attesa intanto che il complice astro salendo dal mare preparava con flemma la battaglia. Prima di coricarsi, semivestiti preparavano presso i letti ed i divani, in luogo dell’acqua zuccherata, maschere per gas asfissianti, elmetti, cappotti ... Intanto nel crescente chiarore, nella placidità dell’atmosfera, nell’argentea vastità marina, nel fremito delle stelle, s’insinuava, in sostituzione di lontani incantesimi, la minaccia di aerei nemici. I veterani della squadriglia, in famigliarità con i rischi lunari, aspettavano di lan-ciarsi in volo suonando il pianoforte, giuocando al bigliardo o partecipando alle conversazioni che si svolgevano in riva al mare fra i notabili e le notabili di Grado, trattenuti all’aperto, più che dal fascino della notte serena, dall’aspettativa per le imminenti incursioni. In quelle ore il mare, la notte, l’arco del golfo di Trieste perdevano quella misteriosa virtù d’illudere che avevano emanato quando non erano ancora dominati dal minaccioso volo umano. La serenità dell’ora suggeriva l’idea opposta a quella che avrebbe suggerito quattro anni prima: - Avremo una notte bellicosa -. In cospetto degli aviatori, il mare decadeva dalla posizione sovrana alla quale l’avevano elevato poeti in contemplazione, riducendosi a una distesa più o meno favorevole per partire e tornare con l’idrovo-lante, come al marinaio non appariva che un nascondiglio di mine, sottomarini, sommergibili ... Il panorama, la luna e le stelle servivano semplicemente come punti di riferimento. La maestà della sera era tagliuzzata dalle lame dei proiettori che su l’Hermada, a Duino, a Nabresina, a Prosecco, a Muggia, a Pirano, a Punta Salvore si alternavano nell’ufficio di sentinelle sospettose. Lo sfondo violaceo delle colline istriane appariva ogni minuto bucato, schernito da queste luci della diffidenza che radevano il mare e talvolta si fissavano lungamente su Grado come vi facessero enormi scoperte, mentre dal Timavo verso Tolmino si sbizzarrivano in muti inchini i razzi. L’armonia della notte lunare s’irrigidiva completamente quando la sonorità dei motori austriaci si approssimava. Immersi nella penombra, con un’apparenza di esseri addormentati, i semafori, i posti di guardia, le batterie antiaeree, le torpediniere, i motoscafi si trasmettevano con pacato, serrato ordine, con un sistema fatto naturale dall’abitudine quasi quotidiana, l’avviso di stare pronti. Soppresso ogni lume, ogni segno di vita, proprio quando la vita dei difensori raggiungeva l’efficienza massima, dal semaforo il comandante della piazza, con un orecchio sugli istrumenti acustici e con la bocca al telefono, indicava i punti del cielo contro i quali dovevano convergere i tiri antiaerei. E nell’invisibilità notturna centinaia di bocche da cannone si spostavano simultaneamente come una massa corale, diretta da una sola mano, pronta a intonare. C’era nell’insenatura di Muggia un raggio fisso di proiettore che rivelava agli osservatori di Grado la già avvenuta partenza degl’idrovolanti austriaci: serviva da guida agli aerei bombardieri della notte i quali prima si aggiravano sul golfo dì Panzano o alla foce del Tagliamento per «fare quota» e poi scendevano con un minimo di giri di motore per agire non uditi sul bersaglio. Il golfo di Panzano e la foce del Tagliamento erano le zone di convegno degli idrovolanti avversari intenti a far quota. Si davano a vicenda la caccia o a vicenda si preparavano a bombardare le rispettive basi. Ombre nere librate nell’aria scivolavano l’una presso l’altra: fra esse si accendevano momentaneamente minuscole luci elettriche con punti e linee. Talvolta erano apparecchi nostri che si riconoscevano, tal’altra erano apparecchi austriaci che facevano altrettanto. Non di rado apparecchi austriaci e italiani si lanciavano segnalazioni, ma appena si riconoscevano per nemici spegnevano bruscamente le luci e scambiavano raffiche di mitragliatrici, brevemente, perché la notte anche lunare impedisce a chi vola di scorgere a lungo un altro apparecchio per pochi istanti si presenta come un’ombra, poi sparisce nell’ombra immensa. Queste vicende dell’aria tenevano in costante sospetto gli ascoltatori da terra, i quali dal diverso suono dei motori individuavano la nazionalità dell’invisibile velivolo. C’era il suono fluido, canoro come vibrazioni di diapason: nostro; c’era il suono brontolone, scandito, disuguale: tognino. Gli apparecchi nazionali avvicinandosi lanciavano con le loro lampade elettriche i segnali convenuti; sembrava che si accendessero in cielo nuove stelle, più grandi. Quegli apparecchi erano i vendicatori delle incursioni austriache consumate o un’ora prima o la sera precedente su una delle località inermi del Friuli e del Veneto. Da Grado erano gl’idrovolanti che si apprestavano a vendicare l’incursione imminente di cui dava l’annuncio il bronzo maggiore del campanile. Nel silenzio colmo di attesa s’udiva dal semaforo un marinaio gridare al vicino campanile del Duomo: - Allarme! - Il campanaro strappava i rintocchi urgenti che facevano trasalire - il brivido che passa fra il sospetto e la certezza - i borghesi pigiati nei sotterranei. Gli idrovolanti austriaci planavano sulla città le cui case, schiarite dalla luna, avevano l’apparenza di strani, pallidi visi esterrefatti, dai cento occhi spalancati. Sibili lugubri, fulminei, feroci fendevano l’aria e concludevano in un’esplosione cupa, o in un vuoto inatteso: segno, quest’ultimo, che la bomba non era scoppiata. Subito dopo sembrava che tutta la plaga intorno esplodesse: detonazioni, sussulti d’artiglieria, raffiche rabbiose di mitragliatrici, vampe fugaci a terra e scoppi in aria, agitazioni di proiettori, esordendo simultaneamente come a piena orchestra, infliggevano al paesaggio un aspetto infernale; le facciate e i tetti degli edifici trasalivano fra contrasti subitanei di oscurità e di barbagli. Una sera uno scoppio più imponente seguito da una scia, come stesse precipitando un bolide, invermigliò il cielo su la laguna di Grado. Cessato il ruggito della battaglia, dileguatosi il fragore degli aerei fuggiaschi e caduti gli ultimi fondelli reduci dalle esplosioni d’artiglieria ad alta quota, varie imbarcazioni raggiunsero, boccheggiante in una secca, il viluppo attorcigliato, fumigante dell’idrovolante austriaco K212 da cui emanava un complicato odore di benzina, olio, tela, olio e sangue. - E per tutta la notte il proiettore di Muggia si ostinò nel cielo ad aspettare l’idrovolante assente e s’udì qualcuno degli aerei superstiti esplorare il mare. Non era ancora cessata l’incursione austriaca che già cominciava la nostra. Alle bombe che avevano sgretolato qualche casa di Grado, che s’erano conficcate in buche profonde tra un edificio e l’altro degli aviatori, opponevamo le nostre da sfibbiare sui campi d’aviazione, sulle stazioni ferroviarie, sugli stabilimenti militari del nemico. I nostri capannoni trasalivano di luci, si popolavano di uomini usciti dai rifugi: squadre di manovratori spingevano in acqua gli idrovolanti sui quali gli armaioli assicuravano le panciute, livide bombe e controllavano le mitragliatrici, i meccanici accendevano i motori. Poi osservatori e piloti s’ingolfavano negli scafi, impartivano ordini rapidi e dei «via» urgenti. E gli aerei scivolavano spumeggiando pel canale, si trasformavano in ombre con luci alle estremità delle ali e svanivano azzurri nell’azzurro, perdendo il loro canto nella vastità .... Gli ufficiali, i soldati rimasti al campo fissavano la sponda nemica e dalle mute, crescenti esplosioni in cielo che si spostavano lungo il volo, traevano indicazioni per seguire i nostri apparecchi: - Sono sopra Trieste. Si dirigono verso Barcola. Ormai hanno raggiunto il mare. Ritornano -. Sul canale le lampadine elettriche venivano accese perché i reduci potessero riconoscere con precisio-ne le sponde e sopratutto evitare i pali e i banchi di sabbia distribuiti nella laguna. Quell’effetto ottico sembrava un richiamo. Ed ogni aereo rispondeva accendendo e spegnendo la lampada elettrica di bordo secondo i convenuti segnali. Pareva di leggere in questo gioco di luci la gioia della rappresaglia inflitta, l’allegrezza del sano ritorno e l’ansia dell’ammaraggio. Non appena l’idrovolante s’era posato in acqua, un senso di gaia liberazione si spandeva negli astanti perché il momento più delicato di tutto il volo - il contatto con l’acqua ambigua e rispecchiante le stelle - era stato felicemente superato. Non pochi piloti si ingolfarono improvvisamente nel loro primo volo notturno. Partiti al tramonto per una rapida operazione di guerra s’erano poi imbattuti nell’imprevisto: siluranti nemiche scoperte in navigazione tra un porto e l’altro dell’Istria, incontro con aerei avversari; di qui combattimenti, poi ritorno quando ormai i 3.000 metri di quota apparivano divisi in due zone: una al disopra della leggera foschia serale ancora illuminata dal purpureo commiato del sole e l’altra sottostante già violacea per l’invasione sulla terra delle prime ombre. Il pilota ancora inesperto di voli notturni, seguiva gl’idrovolanti compagni di navigazione mentre apparivano c scomparivano di tra i vapori della foschia, fluttuando in una lenta altalena per passare sopra o sotto gli strati più densi, con delle lievi oscillazioni alle ali, sempre più bruni ed evanescenti. Giù a Grado s’intravvedeva un faro: roteava per indicare la rotta ai ritardatari. Il pilota novizio faceva scendere cautamente il suo apparecchio sbirciando il panorama ridotto a macchie talune biancastre ed altre oscure, Il mare non era che una lastra bigia. Le distese abitate s’illividivano, i canali erano nastri di luce paonazza. A cento metri gli edifici più spiccati sembravano placidi mostricciatoli sbalorditi. Uno dopo l’altro gli apparecchi erano già scesi nel canale. Restava in aria il pilota novizio che dopo aver girovagato sul canale, ormai insidioso nella sua indeterminatezza, aveva finito per portarsi sul mare, riducendo gradatamente la forza del motore e reggendosi poco sotto alla linea di volo: abbassandosi con cautela aveva sfiorato l’acqua ... Venere brillava in cielo e il faro di Grado fissava il velivolo ritardatario e incolume. Il pilota gustava intanto la soddisfazione di aver penetrato d’improvviso, e con una disinvoltura mag-giore di quella preveduta, parte del mistero che avvolge, agli occhi dei non iniziati, il volo notturno. La parola «notte» suggerendo l’immagine del buio, dell’invisibilità, turba il pilota che non può disso-ciare l’idea del volo da quella di vedere. Ma la luce lunare e persino la luce stellare riducono l’imperio delle tenebre. Nei primi momenti del volo, appena staccato l’apparecchio dall’acqua, il pilota non scorge che una sola immensa tinta turchina intorno a sè come tutte le cose fossero d’inchiostro. Se la sensibilità fisica non gli provasse che già è librato, egli avrebbe ancora l’impressione di scorrere sull’acqua dato che nessun mutamento di colore è avvenuto tra acqua e cielo. Ma l’altimetro, illuminato dalle lampadine elettriche, applicate nell’interno della cabina, indica l’aumento di quota al pilota il quale per la prima volta si trova a dover confidare esclusivamente nella sensibilità della propria persona per reggere con regolarità l’apparecchio. Egli si guarda intorno ed a stento scorge le ali. Da uno stato di perplessità passa ad uno stato di confidenza perché vola d’istinto e si accorge di volare bene, meglio forse che di giorno non ostante lo circondino il mistero della notte, una solitudine resa assoluta dalla temporanea invisibilità del panorama. Se l’atmosfera è placida e tepida, la voluttà di volare in quell’ora è suprema, è la maggiore che prodighi l’aviazione. Il pilota dirige la rotta valendosi della bussola. Poi osservando il firmamento s’avvede che le stelle lo aiutano a controllare la posizione dell’apparecchio. Sceglie la costellazione, passa sulla sua rotta e ne fa la sua guida; grazie a questa amica l’orientamento riesce facile ed esatto ... Si sente allora psicologicamente più vicino agli astri visibili, che alla terra invisibile. Guadagnando sempre più quota e fissando insistentemente in basso, il pilota comincia a distinguere due vaste macchie, una biancastra ed una bruna. La biancastra - ragiona l’esordiente - corrisponderà al mare e quella bruna alla terra. S’accorge poi che il mare, meno dov’è striato dai riflessi lunari, risulta bruno, mentre la terra è chiara particolarmente nell’intreccio delle sottili strade e nelle distese abitate. La fronte, quando serpeggiava da Duino a Tolmino, nella notte a 3.000 metri, si presentava luccicante di razzi, di scoppi, di barbagli tortuosamente disposti con un’assurda apparenza di festosità. La costa da Duino a Pola appariva al contrario illuminata solo da proiettori i quali con l’avvicinarsi dell’idrovolante si spegnevano. Nell’atto di nascondersi, la costa dava l’impressione di un fosco mostro oblungo, rovesciato con la schiena a terra, che ritraesse i tentacoli luminosi per fingersi immerso nel sonno. Ma appena l’aereo s’avvicinava, il mostro usciva dalla sua finzione e si difendeva convulsamente, sbarrando gli occhi, lanciando, in alto i suoi tentacoli fosforescenti, agitandoli e incrociandoli con furia. L’idrovolante di tratto in tratto era investito da queste ondate luminose assumendo l’aspetto di magica cosa infuocata. Il pilota nuovo a questo effetto aveva l’impressione d’esser preso di mira da chissà quanti cannoni. I raggi fissati contro di lui aumentavano, lo accecavano, come si fosse improvvisa-mente sostituito, per un diabolico prodigio, il sole alla notte. Per sfuggire all’accerchiamento dei bagliori, abbassava l’apparecchio a tutto motore, poi, utilizzando l’eccezionale impeto, lo lanciava in alto, lo sbandava a destra ed a sinistra. Ad uno ad uno i raggi si staccavano per continuare la loro esplorazione. Non avevano scoperto il velivolo probabilmente perché la loro potenza era stata diminuita dal chiarore lunare. Intanto, essendo giunto il momento per lanciare le bombe, il pilota scendeva sul bersaglio a motore rallentato: il bersaglio, che poteva essere costituito da nere strisce di binari, fra bianchi edifici ferro-viari e industriali, dava l’impressione a chi si accingeva a colpirlo, di vittima immobilizzata dal terro-re, con gli occhi chiusi, muta a pochi istanti dal colpo inesorabile. Ma liberati i proiettili e apparse le vampe tra i fasci delle rotaie, i proiettori si risollevavano di scatto e roteavano per il cielo freneticamente. E fra un candido raggio e l’altro, ecco gli scoppi vermigli e azzurri dei proiettili saliti dalle batterie antiaeree. L’idrovolante, rivolta la prua verso il mare, tornava a pieno motore su Grado. Superata la preoccupazione del bombardamento, si presentava tosto nell’equipaggio quella del ritorno al campo. Il pilota notava i contrasti fra le indicazioni dell’altimetro e le apparenze del mare, il quale si presentava più vicino del vero se striato da riflessi lunari, più lontano del vero se velato da tenui strati di vapori, certo sempre ingannevole, insidioso. Occorreva un punto preciso di riferimento e questo era costituito dal semaforo di Grado che si distingueva per le segnalazioni luminose con le quali pareva chiedesse all’aereo di ritorno: - Sei nazionale? Fatti riconoscere. - E l’aereo, pei mano dell’osservatore che faceva funzionare la lampada elettrica, rispondeva: - Sono nazionale. Ecco la lettera di riconoscimento. Allora il canale di Grado si precisava con le sue luci rosse, come volesse dire: - Puoi entrare. - Il pilota vi si portava all’imboccatura e a pochi metri da quello che riteneva il pelo dell’acqua: a destra ed a sinistra sfilavano, rapidissime, ombre di navi, di pali, di branchi sabbiosi, ombre d’indefinita distanza. Toglieva forza al motore, mirava con somma cura al centro del canale: un colpetto sotto lo scafo, l’acqua. Trionfale respiro di soddisfazione: - Anche per questa volta, mi è andata bene - Motoscafando tornava allo s calo; interrogati pilota e osservatore, come colti da oblio improvviso e da inesplicabile pigrizia mentale, non trovavano nulle d’interessante da narrare fra le tante eccezionali emozioni provate e si limitavano a rispondere con frasi di generica soddisfazione. Ma altre volte era accaduto a idrovolanti di incontrare, durante voli notturni, dense nubi che soppri-mevano il soccorso lunare, che coprivano di un’oscurità uniforme mare e terra. Poi se fra le nubi si dibatteva la tempesta, gli aerei-fantasma, posti fra il cielo che li spingeva a raffiche in basso e il mare che apriva loro invisibili voragini, lottavano inseguendo il nord delle loro bussole, il nord delle loro sole amiche. I piloti avvinti ai comandi con una energia sconosciuta, gli osservatori con gli sguardi fissi nelle tenebre, procedevano, or soffiati in alto, ora trascinati in vuoti d’aria. Improvvisamente sotto i barbagli dei lampi apparivano a istanti parvenze di una costa irriconoscibile. Gli apparecchi, dispersi qua e là, invisibili gli uni agli altri, rimbalzando di onda in onda con strepiti che facevano pensare a schianti irrimediabili, s’irrigidivano su banchi sabbiosi. Sotto il flagello dell’uragano gli equipaggi rivelavano la loro presenza con i mezzi luminosi di bordo. Lunga attesa fra le onde che sorpassando i banchi sabbiosi mordevano le prede. Poi a distanza voci d’interrogazione e segnali resi dubbiosi dagli scrosci delle acque: Dagl’idrovolanti: - Siamo in Italia? Da terra: - Si, in Italia. L’ultimo volo della squadriglia su Grado italiana fu quello del ripiegamento. Fu un volo quasi improv-viso spiccato per inevitabile ordine superiore. All’alba di quel cattivo giorno d’ottobre cominciò la sfilata dei profughi verso i piroscafi e i vaporetti: profughi con involti e profughi con valigie e bauli, popolani e agiati. Grado si svenava. Mentre una parte della squadriglia riempiva febbrilmente di casse, di motori, di ali, le bettoline che i rimorchiatori avrebbero guidate lungo i canali delle lagune, l’altra difendeva per l’ultimo giorno, con tre suoi apparecchi, il cielo tanto suo fino a poche ore prima. Chi partì in volo al tramonto, chi durante la notte. Tramonto lugubre di un giorno e di tutta una situa-zione bellica, tramonto sul Carso ancora fumante di scoppi a poche ore dall’abbandono, volo di deso-lante addio alle pianure per poche ore ancora nostre, fra l’Isonzo e il Tagliamento, fra il Tagliamento e il Piave, volo di separazione dalle pianure il cui verde sorriso, il cui opulento aspetto, le cui innumere-voli casuccie intatte sprigionavano un contrasto mortale col sinistro imminente destino che già si addensava su loro. Quando gli idrovolanti della squadriglia si slanciarono in alto dal canale di Grado che tante volte li aveva veduti partire per bombardare di giorno e di notte, per vendicare le incursioni avversarie, per imprese ognuna delle quali era una sfida al nemico ed agli elementi, la squadriglia dai suoi ufficiali ai suoi soldati fu morsa dal cupo dolore che segna il principio di un esilio. Tutta la notte il cielo carsico apparve vermiglio del più immane incendio, vasto quanto l’arco dell’orizzonte, con lampeggiamenti smisurati, con rombi, scoppi giganteschi nei quali pareva si sommassero tutte le artiglierie. Lungo il mare, che pareva di sangue, tuonavano, in un silenzio denso del più fiéro cruccio, I monitori, i pontoni che per tanti mesi avevano tuonato con i loro 305 in piena luce, da dominatori. E gli aviatori scendendo in volo a Venezia rimasero stupiti nel mirarla così regalmente serena nel suo pallore. Dalla sua bellezza composta sorgeva un’allucinazione: che non fosse vera la realtà di cui i reduci da Grado erano stati testimoni fino a cinquanta minuti prima. Poi la squadriglia riprese il volo verso l’esilio. Tornare indietro così, significava essere esiliata. Non così doveva tornare in cospetto della vecchia Italia, non così sospinta dalla sconfitta, Prima dell’abbandono di Grado i ricoveri degli aerei nostri arsero. La squadriglia esule ha un sogno: farli risorgere.

AUTORE: OTELLO CAVARA

×